IL GIORNALE
In carcere senza colpa per 22 anni. Lo Stato deve risarcirlo con 7 milioni
Condannato il ministero, per l’Italia è un indennizzo record Giuseppe Gulotta, diciannovenne, aveva confessato sotto tortura
Ventidue anni di galera per un crimine mai commesso: lo Stato dovrà risarcirlo con oltre 6 milioni e mezzo d’euro.
Giuseppe Gulotta ha vinto anche l’ultima partita, stavolta ottenendo che la Corte d’Appello di Reggio Calabria condannasse il ministero dell’Economia a risarcirgli il quasi quarto di secolo passato dietro le sbarre con l’accusa di omicidio. La sentenza è arrivata l’altro giorno, a scrivere forse la parola fine alla storia del cinquantanovenne siciliano costretto in prigione per 22 anni da innocente. La cifra è record, ma lontana dai 56 milioni che il muratore di Alcamo aveva chiesto coi suoi avvocati per lenire le pene d’una vita spezzata. In carcere Gulotta s’era affacciato diciannovenne. È il 1976, febbraio: un suo vicino di casa, Giuseppe Vesco, lo accusa d’aver fatto parte del commando che un paio di settimane prima era entrato nella caserma dell’Arma di Alcamo Marina uccidendo due carabinieri. L’indiziato confessò si scoprirà più tardi sotto tortura. Spinto ad ammettere responsabilità inesistenti a furia di calci, botte e bevute forzate di acqua salata. Una verità raccontata ai giudici, ma mai creduta. Nel 1990 arrivò il verdetto definitivo di condanna. E da allora per Gulotta fu la morte civile in un penitenziario. Solo nel 2007, un ex ufficiale della Benemerita, Renato Olino, spinto dal rimorso, andò dagli inquirenti a rivelare la verità. Si apriì il processo di revisione. Nel 2010 il primo successo: la libertà vigilata; nel 2012 l’assoluzione.
Incredibile, ma affatto raro, in Italia: la legge distingue tra errore giudiziario (quando una condanna viene in seguito annullata per fatti nuovi) e ingiusta detenzione (se alla carcerazione segue l’assoluzione). Stando ai dati del ministero della Giustizia, dal 1992 al 2014 «l’ammontare delle riparazioni ha raggiunto i 581 milioni, con 23.226 liquidazioni effettuate». Numeri freddi, che non restituiscono i drammi di storie personali cancellate molte, troppe volte per superficialità, per la fretta di chiudere un caso. Come quello che ebbe per protagonista l’imprenditore Daniele Barillà: arrestato nel 1992 mentre attendeva la fidanzata sotto casa, condannato perché ritenuto implicato in un vorticoso giro di cocaina, torna libero nel 2000. Quando si scopre che nell’inchiesta il suo nome è finito per sbaglio. Per uno scambio di persona.
Con Barillà lo Stato ha pagato il suo debito versando 4 milioni di euro. Con Gulotta, invece, ha provato a fare il furbo. «Nulla gli è dovuto», ha argomentato l’Avvocatura in corso di causa: «L’errore fu indotto dal richiedente, attraverso la confessione». Quella estorta a suon di botte. La Corte ha ascoltato, preso nota, valutato. Alla fine ha deciso. Ed al ministero ha concesso lo sconto, non la vittoria. Giampaolo Iacobini