CARCERI: Ogni braccialetto elettronico per detenuti ci costa 86.500 euro. E non funziona (La Verità)

LA VERITA’
Ogni braccialetto elettronico per detenuti ci costa 86.500 euro. E non funziona
Nato per liberare le carceri, è diventato un pozzo senza fondo. In 15 anni solo 2.000 esemplari funzionanti, arrivati da Telecom e costati 173 milioni. Ne servono altri 10.000, ma il bando per la fornitura è un mistero.
Doveva essere la panacea per i mali del sistema carcerario, grazie al rilascio “controllato” di molti condannati. E invece il braccialetto elettronico si è rivelato un pozzo senza fondo. Ne servono almeno altri 10.000 ma il bando è sparito, mentre il costo complessivo dei 2.000 in circolazione è di 173 milioni di euro. Una catena di assurdità, fino alla gestione della lista dei detenuti affidata alla Telecom, che fornisce le apparecchiature. È il monile più caro del globo. Dal 2001 a oggi il “braccialetto elettronico” per i detenuti (che in realtà è una cavigliera) è costato almeno 173 milioni di euro. Soldi pubblici buttati dalla finestra: prima in un estenuante decennio sperimentale che ha visto appena14 apparecchi impiegati per una spesa di no milioni di euro; e poi, dal 2011, in una scombiccherata “gestione ordinaria” che per la modica cifra di lo-11 milioni l’anno ne ha gradualmente introdotti altri 2 mila circa.
Così, il mitico braccialetto, che da decenni viene presentato come lo strumento che dovrebbe risolvere l’emergenza carceraria e garantire il pieno controllo a distanza di chi è recluso ai domiciliari, è uno dei più opachi capitoli della giustizia italiana. Ma oggi è diventato un vero scandalo che grida vendetta. Lo è per la spesa pubblica impiegata complessivamente, visto che il risultato finale è che ognuno dei 2 mila braccialetti forniti dalla Telecom, finora unica interlocutrice dei contratti sottoscritti con il ministero della Giustizia e con quello dell’Interno, ci è costato almeno 86.500 euro.
Ma lo è anche per come la burocrazia ministeriale ha gestito e continua a gestire la faccenda. Da tempo, infatti, è evidente che i duemila braccialetti sono largamente insufficienti. Alla fine di novembre, ultimo dato disponibile, i reclusi in una cella erano 55.251 (5mila in più rispetto ai 50.254 posti regolamentari disponibili), cui si aggiungevano altri 781 in semilibertà. Tra i detenuti, quelli in attesa di un primo giudizio sono tantissimi: 9.846, quasi il 18%. Parrà assurdo, ma in Italia nessuno sa quanti sarebbero quelli che potrebbero legittimamente passare da una prigione a una casa, e decongestionare l’emergenza, in virtù di un decreto di tribunale già operativo.
Rita Bernardini, l’esponente radicale che sulla nostra vergogna carceraria ha imbastito una meritoria campagna ultradecennale, dice alla Verità di avere personalmente incontrato “tantissimi detenuti che avrebbero ottenuto provvedimenti di scarcerazione con il braccialetto, e invece da mesi aspettano in cella perché gli apparecchi mancano”.
Da oltre un anno si favoleggia di un bando europeo per un numero imprecisato di nuovi apparecchi: l’iniziativa di quell’appalto spettava all’ex ministro dell’Interno Angelino Alfano, che però è appena trasvolato alla Farnesina. Un mese fa, il 14 novembre 2016, il ministro della Giustizia Andrea Orlando ha annunciato in tv, a Porta a porta, che il Viminale aveva già da tempo provveduto a lanciare il bando: “Abbiamo utilizzato tutti i braccialetti che c’erano”, ha detto il Guardasigilli, “ma ora aspettiamo i risultati della gara europea che è stata fatta a giugno”. “Giugno? Non è affatto vero” lo smentisce Bernardini. E Riccardo Polidoro, responsabile dell’Osservatorio carcere dell’Unione camere penali (Ucp), l’organizzazione degli avvocati penalisti italiani, conferma: “Il bando non è mai stato fatto. Anzi, a fine novembre lo abbiamo sollecitato al ministero della Giustizia e a quello dell’Interno. Gli uffici del Guardasigilli hanno detto che avrebbero a loro volta sollecitato Alfano. E il Viminale non ci ha nemmeno risposto”.
L’Ucp calcola che oggi servano almeno lo mila braccialetti in più. È una stima a spanne, però, e decisamente prudenziale, perché malgrado una ricognizione compiuta presso tutti i tribunali italiani, un lavoro durato ben otto mesi, un numero certo non esiste. Non lo conosce nessuno: “Diciamo che nei tribunali abbiamo incontrato una certa difficoltà a reperire dati”, ironizza l’avvocato Polidoro. In compenso, l’Ucp ha fatto altre scoperte sorprendenti: “Abbiamo appurato che la lista d’attesa dei detenuti cui dare il braccialetto viene gestita non dal ministero della Giustizia, bensì dalla Telecom”. A questo punto, uno potrebbe domandarsi perché mai la burocrazia ministeriale arrivi a tali aberrazioni. Ma Polidoro aggiunge sconforto allo sconforto: “Speriamo che, quando il bando verrà finalmente fatto, individui almeno caratteristiche tecniche migliori delle attuali”.
I braccialetti esistenti, a sentire gli avvocati penalisti, non offrono proprio il massimo della funzionalità: per installarne uso prima serve che un tecnico della Telecom misuri il perimetro della casa dove alloggerà il recluso, e a quel punto nell’abitazione viene installata una centralina. Ma se il detenuto ai domiciliari su ordine del giudice deve allontanarsi da casa per andare a lavorare, ogni volta bisogna che la centralina sia disattivata e riaccesa. Con nuove procedure burocratiche e ovvie spese aggiuntive. Eppure basterebbe un semplice gps, in grado di valutare se gli spostamenti in certi orari sono ammessi o no. Come avviene già nei nostri cellulari. E in tutti i Paesi civili che adottano braccialetti elettronici per i loro detenuti.

Foto del profilo di Andrea Gentile

andrea-gentile