CASSAZIONE: Cessioni, valido il prezzo inferiore a quello di mercato (Il Sole 24 Ore)

IL SOLE 24 ORE

 

 

 

Cassazione. I dissidi tra soci o lo stato di salute giustificano il valore più basso

Cessioni, valido il prezzo inferiore a quello di mercato

 

 

 

 

La norma che impedisce all’ufficio di presumere l’esistenza di un maggior corrispettivo nelle cessioni di immobili e di aziende, in base al solo valore dichiarato, accertato o definito ai fini del registro, si applica anche per il passato essendo di interpretazione autentica. In ogni caso i dissidi tra i soci e il precario stato di salute di uno di essi ben giustificano la cessione dell’azienda a un valore inferiore da quello di mercato stimato dall’amministrazione. A fornire questi chiarimenti è la Corte di cassazione con la sentenza 22221/2016 depositata ieri.

Una società di persone cedeva la propria attività e il relativo immobile. L’atto di trasferimento era rettificato ai fini dell’imposta di registro ed i contribuenti interessati definivano la pretesa in adesione.

In conseguenza di tale provvedimento, l’Agenzia delle Entrate contestava un maggior reddito alla società di persona venditrice ed ai suoi soci (per trasparenza), per la plusvalenza derivante dal nuovo valore attribuito alla cessione.
Gli accertamenti venivano impugnati dinanzi al giudice tributario che, solo in appello, annullava la pretesa erariale.

In particolare, la Ctr rilevava che la cessione dell’attività si era resa necessaria a causa dei dissidi insorti tra i soci, oltre che dalla grave patologia contratta da uno di loro.

I contribuenti, pertanto, secondo il collegio, avevano fornito sufficienti elementi per superare la presunzione che il prezzo di vendita dell’azienda corrispondesse al valore venale in comune commercio definito ai fini del registro. Con riguardo poi alla parte immobiliare, la pronuncia osservava che l’ufficio si era limitato ad una valutazione legata all’Omi, ritenuta però insufficiente per fondare la rettifica.

L’Agenzia ricorreva così in Cassazione, lamentando, in estrema sintesi, un vizio di motivazione della sentenza, oltre che un’errata attribuzione dell’onere probatorio: doveva essere il contribuente a fornire prova contraria rispetto alle presunzioni dell’ufficio.

La Corte ha confermato la decisione di secondo grado. Preliminarmente ha rilevato che la tesi erariale si fondava su un presupposto giuridico «non più vincolante». L’articolo 5, comma 3 del decreto legislativo 147/2015, interpretando le norme in tema di tassazione delle plusvalenze, ha infatti previsto che per le cessioni di immobili e di aziende, l’esistenza di un maggior corrispettivo non è presumibile solo sulla base del valore dichiarato, accertato o definito ai fini delle imposte di registro, ipotecaria e catastale.
Secondo i giudici di legittimità tale disposizione, di interpretazione autentica, ha efficacia retroattiva.

In ogni caso, anche per il passato, la presunzione in favore dell’ufficio non poteva sottrarsi alle ordinarie regole probatorie. Dinanzi all’attività difensiva del contribuente, il quale aveva provato i dissidi tra i soci e il grave stato di salute di uno di loro, l’Agenzia avrebbe dovuto supportare la propria tesi con altri elementi, valutabili solo dal giudice di merito, che nella specie non è avvenuto. Da qui l’accoglimento del ricorso. Laura Ambrosi

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