IL SOLE 24 ORE
Cassazione. La Corte alleggerisce l’onere della prova a carico del dipendente, che può basarsi su massime di comune esperienza
Demansionamento anche presunto
Gli effetti dannosi per il lavoratore possono essere dimostrati con prove «indirette»
Il danno da dequalificazione professionale non è in re ipsa, ma richiede di essere provato dal lavoratore che, a seguito del demansionamento, lamenta di aver subito un pregiudizio risarcibile.
Tuttavia, tale danno può essere ricavato in via presuntiva o facendo ricorso a massime di comune esperienza.
La Corte di cassazione ha confermato questo principio con la sentenza 20677/2016, nella quale ha precisato che il periodo non breve di durata della dequalificazione (tre anni e mezzo, nello specifico caso) e la mortificazione sul piano professionale e dell’immagine che ne sono derivati, unitamente alla marginalizzazione del dipendente dal contesto ambientale e al conseguente allontanamento dai settori aziendali più strategici, sono indici sufficienti e sintomatici dai quali dedurre presuntivamente la produzione di un danno risarcibile sul piano economico.
Il caso sul quale è stata chiamata a pronunciarsi la Cassazione è relativo alla controversia del dipendente di un istituto bancario che, sul presupposto della adibizione a mansioni peggiorative rispetto a quelle di sua competenza, si è rivolto al tribunale per richiedere, oltre alla reintegrazione in mansioni corrispondenti alla sua qualifica, il risarcimento del danno professionale e di quello biologico.
Il tribunale di Lecce ha accertato il demansionamento e ordinato l’adibizione del lavoratore a mansioni più qualificanti sul piano professionale, rigettando, tuttavia, le domande risarcitorie proposte dal dipendente. In parziale riforma della sentenza di primo grado, la Corte d’appello salentina ha condannato l’istituto bancario a risarcire il danno professionale, ma non quello alla salute sofferto dal lavoratore, che è stato quantificato in oltre 52.000 euro.
Avverso quest’ultima decisione ha proposto ricorso la banca, osservando che il dipendente non ha provato il danno effettivamente subito nella sua componente professionale, disattendendo in questo modo il principio per cui gli effetti invalidanti che possono derivare dal demansionamento si collocano nell’alveo del danno-conseguenza e non sono, invece, ascrivibili alla categoria del danno-evento.
L’istituto bancario, inoltre, si è lamentato per la misura del risarcimento economico liquidato dal collegio, contestando che la quantificazione in misura pari a 2/5 della retribuzione riferita al periodo di demansionamento risultava sproporzionata rispetto alle modeste dimensioni dell’unità produttiva cui era preposto il dipendente e tenuto conto delle iniziative inadempienti di cui si era reso responsabile il lavoratore, osservando che esse avevano contribuito a determinare la decisione dell’azienda di modificare la sua collocazione aziendale.
La Corte di cassazione ha respinto questi rilievi e ha affermato, muovendosi nel solco di un indirizzo giurisprudenziale per cui il danno da demansionamento professionale può essere determinato in via presuntiva o facendo riferimento a massime di comune esperienza, che indici quali la durata della dequalificazione, l’emarginazione del dipendente e il depauperamento delle esperienze lavorative pregresse sono sintomatici della effettiva produzione di un danno risarcibile.
La Cassazione conferma, altresì, che la concreta determinazione del risarcimento può essere legittimamente effettuata attraverso il riconoscimento di una quota parte della retribuzione mensile per tutto il periodo in cui si è protratto il demansionamento.
Con quest’ultima pronuncia i giudici proseguono nel tentativo di trovare un equilibrato bilanciamento tra il principio, maturato in seno alla Suprema corte, per cui il danno da dequalificazione non è in re ipsa, e la necessità che il lavoratore demansionato offra la prova dei pregiudizi effettivamente subiti nei vari ambiti professionale, alla salute e alla vita di relazione.
Giuseppe Bulgarini d’Elci