CASSAZIONE: Fatture false, concorso per il professionista (Il Sole 24 Ore)

IL SOLE 24 ORE
Cassazione. Se ne suggerisce l’utilizzo per ridurre il carico fiscale
Fatture false, concorso per il professionista

Risponde di concorso nel reato di emissione di fatture false il professionista che suggerisce a propri clienti di utilizzare tali documenti per abbattere il carico fiscale.
A confermare tale principio è la Corte di cassazione, terza sezione penale, con la sentenza n. 17418 depositata ieri.
Un professionista incaricato di curare la contabilità di varie aziende, era stato accusato di concorso nell’emissione di fatture per operazioni inesistenti, per aver prospettato a due dei propri clienti la possibilità di inserire dei costi al fine di ridurre il carico fiscale.
La Corte di appello, riformando parzialmente la decisione del Tribunale, lo aveva condannato alla pena di un anno e 7 mesi di reclusione.
L’imputato aveva proposto così ricorso per Cassazione, lamentando, in estrema sintesi, un vizio di motivazione e il travisamento del fatto e della prova. In particolare, aveva rilevato che il giudice territoriale aveva fondato la propria decisione sul ritrovamento presso il suo studio sia delle fatture false, sia degli assegni emessi in favore del fornitore. La Corte di appello aveva però trascurato che la ragione di tale ritrovamento era legata all’incarico per la tenuta della contabilità, ricevuto dal soggetto che aveva emesso le fatture.
La Cassazione ha ritenuto inammissibile il ricorso per manifesta infondatezza, poiché la sentenza risultava adeguatamente motivata.
Infatti, il giudice di appello aveva evidenziato che gli assegni rinvenuti erano numerosi e tutti intestati a “me medesimo”, così da escludere che il professionista, nonostante fosse il «prenditore formale dei titoli», risultasse come intermediario. Inoltre, era stato dato rilievo anche alla consapevolezza dell’imputato, in quanto tenutario delle scritture contabili, della circostanza che nonostante il soggetto emittente le fatture false fosse un imprenditore edile, i documenti si riferivano a operazioni commerciali di argento.
Secondo la Suprema Corte, quindi, il collegio territoriale aveva puntualmente disatteso le difese e confermato la tesi accusatoria.
I giudici di legittimità hanno poi richiamato il principio secondo cui vi è concorso nel reato di frode fiscale di coloro che, pur essendo estranei e non rivestendo cariche nella società emittente le fatture per operazioni inesistenti, abbiano in qualsivoglia modo partecipato a creare il meccanismo fraudolento che ha consentito alle utilizzatrici dei documenti il risparmio di imposta.
Peraltro non rileva la prova dell’effettivo inserimento in dichiarazione delle fatture, poiché il delitto di cui all’articolo 8 del Dlgs 74/2000, è di pericolo e punisce la sola emissione o rilascio.
Differentemente, invece, l’articolo 2 dello stesso decreto (dichiarazione fraudolenta mediante utilizzo di fatture per operazioni inesistenti) richiede non solo l’esistenza di tali documenti, ma anche il loro inserimento in una delle dichiarazioni presentate ai fini delle imposte dirette o l’Iva.
La decisione conferma così l’orientamento della Suprema Corte in tema di concorso del professionista nella frode perpetrata dai propri clienti.
Con la sentenza n. 1684/2013 era stato affermato infatti che ai fini del concorso nel reato di cui all’articolo 8 del decreto legislativo 74/2000, il possesso di fatture false e del timbro dell’emittente presso lo studio costituisce prova inequivocabile della partecipazione alle condotte criminose contestate.
Sul fronte dei costi, invece, è stato precisato (sentenza n. 39873/2013) che risponde di concorso nel reato di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture per operazioni inesistenti (articolo 2 del Dlgs n. 74/2000) il commercialista che contabilizza nelle dichiarazioni del cliente fatture che sapeva essere false. Nella specie, la prova era stata ravvisata nella circostanza che il ruolo di mere «cartiere» delle società emittenti le fatture era noto al professionista, poiché la sede sociale coincideva in un caso con il proprio ufficio e, in altro, con l’indirizzo di un amministratore nel frattempo deceduto.
La Corte di Cassazione ha così precisato anche che un professionista appena avveduto avrebbe dovuto quanto meno sospettare del carattere fittizio delle fatture in ragione della generica descrizione fornita rispetto a importi considerevoli. Laura Ambrosi

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