IL SOLE 24 ORE
Sezioni unite. Per l’accesso all’istituto non contano le aggravanti – Sarà il giudice a valutare il caso concreto
Messa alla prova su pena-base
Va valorizzato l’intento del legislatore di ampliare l’applicazione
Roma. La messa alla prova va applicata ai reati con una pena- base massima fissata a quattro anni, senza che nel conto possano pesare le aggravanti, neppure a effetto speciale. Le Sezioni unite della Cassazione, con la sentenza 36272, dirimono il contrasto sul punto, abbracciando la tesi meno restrittiva e valorizzando il fine deflattivo di un istituto teso alla risocializzazione della persona.
La Suprema corte ricorda che l’articolo 168-bis del Codice penale delimita l’ambito operativo della messa alla prova (articolo 168-bis del codice penale) individuando un duplice criterio, nominativo e quantitativo. Da una parte ci sono i delitti indicati dall’articolo 550, comma 2 del Codice di procedura penale e, dall’altro, i reati puniti con la sola pena pecuniaria o con la pena detentiva, sola congiunta o alternativa, alla pecuniaria non superiore ai 4 anni. La norma non puntualizza però se il tetto vada stabilito considerando le circostanze aggravanti o meno. Da qui sorge il contrasto: secondo la scuola di pensiero restrittiva si tratta di una “lacuna” che va colmata ricorrendo a un’interpretazione per analogia.
Il legislatore quando ha inteso delimitare lo spazio di applicazione di istituti processuali o sostanziali, attraverso il criterio quantitativo “edittale”, lo ha sempre fatto considerando le circostanze aggravanti (articolo 63 comma 3 del codice penale). Una strada seguita ad esempio per l’applicazione delle misure cautelari, per l’arresto in flagranza, per individuare i casi di citazione diretta a giudizio o per la prescrizione. Per questo, anche nel caso della messa alla prova, pur in assenza di una espressa previsione, la soluzione la soluzione deve essere in linea con la disciplina dettata per le altre ipotesi.
Un’interpretazione a maglie strette che la Cassazione boccia per abbracciare la tesi, «più aderente alla legge e più coerente sul piano logico e sistematico» secondo la quale il parametro quantitativo contenuto nell’articolo 168-bis del Codice penale si riferisce solo alla pena massima prevista per la fattispecie base, prescindendo dalla contestazione di qualsiasi aggravante, incluse quelle ad effetto speciale. L’articolo non contiene alcun riferimento – sottolinea la Cassazione – a una possibile incidenza delle aggravanti: un dato che non può essere trascurato perché la prima regola di una corretta interpretazione parte dal dato letterale.
Per i giudici il legislatore, quando vuole dare rilevanza alle circostanze aggravanti lo fa in modo esplicito. Né il fatto che la maggior parte delle disposizioni del Codice tengano conto delle aggravanti può essere trasformato da linea di tendenza a regola generale. La Cassazione tiene conto poi soprattutto delle intenzioni del legislatore, che si desumono già dai lavori parlamentari. Nella formulazione originaria contenuta nel disegno di legge c’era un espresso riferimento alle circostanze speciali poi soppresso nel corso della “navetta”.
Nessun vuoto normativo quindi da colmare per analogia. Piuttosto è necessario guardare all’intento del legislatore che è quello di uscire da un sistema sanzionatorio “tolemaico” che punta sulla detenzione muraria. In quest’ottica nella messa alla prova devono rientrare anche i reati ritenuti, in astratto, gravi. Spetta poi al giudice valutare la fondatezza della richiesta dell’imputato, senza che ci siano però “paletti” in entrata a restringere il raggio d’azione di un istituto che finirebbe per rientrare in un’ottica premiale allontanandosi così dal suo obiettivo. Patrizia Maciocchi