IL SOLE 24 ORE
La tutela per il dipendente. Se non si dà corso a soluzioni alternative alla fine del rapporto
Niente reintegra, solo indennizzo
Il dibattito sull’obbligo di repêchage nel licenziamento per giustificato motivo oggettivo si è riacceso a seguito di alcune recenti sentenze della Cassazione e delle modifiche legislative sul cambio di mansioni. Si discute non solo dell’ampiezza e dei confini di tale obbligo (si veda l’altro articolo), ma anche della ripartizione degli oneri probatori in tema di possibilità o meno di un utilizzo alternativo del lavoratore, oltre che delle conseguenze della violazione dell’obbligo.
Sul primo punto, l’onere della prova, una recente sentenza della Cassazione (5592/2016) ha suscitato un certo scalpore (e qualche allarme nelle imprese), sconvolgendo quello che sembrava ormai un arresto giurisprudenziale consolidato, almeno negli ultimi anni. Da qualche tempo, infatti, costituiva principio comunemente accettato e ripetutamente affermato dalla giurisprudenza l’esistenza, in capo al dipendente, di un dovere di indicare nel ricorso al giudice, le mansioni nelle quali riteneva di poter essere (ri)utilizzato. Ne risultava così attenuato l’onere probatorio del datore di lavoro, che veniva di fatto circoscritto alla prova dell’inutilizzabilità del dipendente nelle mansioni alternative da quest’ultimo indicate.
La sentenza 5592/2016 ha invece riportato integralmente (ed esclusivamente) in capo al datore di lavoro l’onere di provare l’impossibilità di un diverso utilizzo del lavoratore, senza che a quest’ultimo possa chiedersi in alcun modo di collaborare nel relativo accertamento. Il nuovo orientamento ha subito trovato seguito nella giurisprudenza di merito (si veda, per esempio, l’ordinanza del tribunale di Torino del 5 aprile 2016, estensore Aprile).
A distanza di poco più di un mese, però, la Cassazione sembra tornare sui suoi passi, riproponendo il dovere di collaborazione del lavoratore che impugni il licenziamento nell’accertamento di un possibile repêchage, mediante l’allegazione di posizioni lavorative di possibile ricollocazione (sentenza 9467/2016). La questione, quindi, è tutt’altro che chiusa.
Quanto invece alle conseguenze della accertata violazione dell’obbligo di repêchage, la giurisprudenza appare ormai consolidata nell’affermare che essa non comporti la tutela reintegratoria, ma solo quella indennitaria prevista dal comma 5 dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori come modificato dalla legge Fornero. La stessa sentenza del tribunale di Torino sopra citata (ma ve ne sono moltissime altre in tal senso) afferma chiaramente che l’impossibilità di una diversa collocazione del lavoratore licenziato non rientra nel «fatto posto a base del licenziamento», la cui manifesta insussistenza può autorizzare la reintegrazione.
Si rientra semmai, laddove l’impossibilità di ricollocazione non risulti provata, in quelle «altre ipotesi» di insussistenza del giustificato motivo oggettivo che comportano la mera condanna al pagamento di una indennità. Questo per i lavoratori già assunti alla fatidica data del 7 marzo 2015.
Per quelli assunti dopo, ai quali si applica il nuovo regime delle tutele crescenti, il problema neppure si pone, data l’esclusività della tutela indennitaria nei licenziamenti per giustificato motivo oggettivo. A.Bot.