IL TEMPO
Conti del Csm, la verità dalla Consulta
Il Consiglio dei magistrati non vuole comunicare le spese ai pm contabili Attesa a breve da parte della Corte costituzionale la decisione sul merito
Sab .9 – Pur di non mostrare le proprie note spese, insomma i conti, alla omonima Corte del Lazio, che da tempo li aveva richiesti e aveva anche sentenziato di avere diritto a vederli, il Consiglio superiore della magistratura ha sollevato conflitto di poteri davanti alla Consulta che qualche giorno fa ha dichiarato preliminarmente ammissibile la doglianza. Una formalità che nulla ha a che fare con la decisione nel merito, che presto ci sarà, e che non evita all’organo di autogoverno delle toghe una figura non proprio cristallina in materia di trasparenza e dintorni. Instaurando oltretutto una polemica con altri magistrati, quelli contabili del Lazio (che per legge si occupano di tutti le istituzioni centrali dello Stato soggette a rendiconto), che per trovare precedenti analoghi fa tornare indietro la memoria agli anni ’80. Quando la procura di Roma mise sotto inchiesta tutti i membri di palazzo dei Marescialli, l’indagine che passo alla storia come quella dei «cappuccini d’oro».
L’attuale vicenda iniziava invece il 21 maggio 2015, quando, «al fine di aggiornare l’anagrafe dei soggetti titolari di gestioni di denaro, beni o valori assoggettabili alla resa del relativo conto, il presidente della Corte dei conti, sezione giurisdizionale per la Regione Lazio, invitava formalmente il Csm a comunicare i nominativi e le funzioni specifiche di coloro i quali dovessero essere qualificati agenti contabili operanti nel proprio ambito e a presentare i conti a partire dall’anno 2010, essendo risultato che l’ultimo conto giudiziale era stato presentato nel 1999». A questa contestazione il Comitato di presidenza del Csm (tramite nota del 31 luglio 2015 del Segretario generale) rispondeva in maniera a dir poco piccata sostenendo che il Csm «non rientrava nel novero degli enti sottoposti ai doveri di rendicontazione periodica alla Corte dei conti secondo la disciplina degli articoli 44 e seguenti del R.D. 12 luglio 1934, n. 1214».
E ciò «per via del particolare regime di autonomia regolamentare e contabile che caratterizza l’Organo di governo autonomo della magistratura, in ragione della sua speciale collocazione costituzionale». Insomma, la famigerata «autodichia» prevista per organismi come Camera, Senato, Corte Costituzionale e, forse, lo stesso Csm. Un istituto dietro il quale in passato si è fatto a dir poco «carne di porco». E magari da non invocare nel momento storico in cui un’indagine non da poco ha coinvolto un ex membro dello stesso Csm che nelle intercettazioni telefoniche lo descriveva come centro di potere ben superiore al Parlamento stesso. Ma tant’è. Adesso a risolvere la singolare tenzone tra Corte dei conti del Lazio e Csm ci penserà la Consulta in sede di merito. Per ora ci sta una sentenza quella del 17 febbraio 2016, numero 70, con cui la Corte dei conti, sezione giurisdizionale per il Lazio, dichiarava che «gli agenti contabili operanti nell’ambito del Csm – e cioè l’istituto cassiere, l’economo e il consegnatario dei beni – soggetti al giudizio di conto di competenza della Corte dei conti» erano tenuti a sottoporsi a controllo contabile. E ordinava al Csm di «depositare i conti degli agenti contabili, come sopra indicati, relativi all’anno 2014». In ballo però ci sono i conti dal 2010 a oggi, quelli su cui non c’è prescrizione contabile, e la procura generale della Corte dei conti del Lazio sottolinea pure come la mancata rendicontazione del Csm dati ormai «dalla fine del 1999».
Cosa di per sé inspiegabile. Un simile brutto quarto d’ora, a livello di immagine, l’organo di autogoverno dei giudici nel passato recente lo passò solo quando nel 1984 il procuratore capo dell’epoca a Roma, Achille Gallucci, decise di mettere sotto inchiesta tutti i membri pro tempore per le eccessive spese di rappresentanza e per le colazioni faraoniche a spese del contribuente. Allora al Csm ebbero il presidente Sandro Pertini e la stampa nazionale dalla loro parte. La cosa passò come l’ennesimo tentativo della procura di Roma di alzare un polverone per fare dimenticare da una parte lo scandalo P2 e dall’altra la fama di «porto delle nebbie». Oggi però, nella città capitale d’Italia con un sindaco dei 5 Stelle che promette monitoraggi su tutto e con le forze politiche che a livello nazionale hanno fatto della trasparenza un feticcio ideologico, buttarla in caciara come nel 1983 sarà più difficile. E sarà ancora più arduo che scenda in campo il presidente Mattarella per difendere non l’autonomia bensì «l’autodichia» del Consiglio superiore della magistratura. Dimitri Buffa