ESTERI: Cina, la retata degli avvocati di Xi Jinping (Il Manifesto)

IL MANIFESTO

Cina, la retata degli avvocati di Xi Jinping

Cina. Oltre 200 attivisti sono stati fermati, arrestati o sono scomparsi nel nulla. Tra loro molti legali impegnati socialmente e accusati di «sovversione» dell’armonia sociale

 

La società civile cinese, ha scritto lo scorso gen­naio Teng Biao (diret­tore dell’associazione con­tro la pena di morte in Cina), ha ben pochi motivi di essere otti­mi­sta nel 2015.

«Il paese, ha scritto, sta affron­tando la peg­giore repres­sione degli ultimi decenni per quanto riguarda gli avvo­cati, gli atti­vi­sti e gli intel­let­tuali». Nei primi sette mesi del 2015 oltre 200 atti­vi­sti, tra cui molti avvo­cati impe­gnati nella difesa dei diritti umani, sono stati arre­stati o fer­mati, alcuni di loro sono scom­parsi, forse sono vit­time di deten­zioni ille­gali, altri potreb­bero essersi nasco­sti per paura di essere acciuffati.

La retata degli «avvo­cati dei diritti», accu­sati di ope­rare per scon­vol­gere e sov­ver­tire la natura poli­tica del paese e creare disturbo alle atti­vità di governo, segue il bava­glio che negli ultimi due anni è stato impo­sto ai pro­fes­sori uni­ver­si­tari, agli atti­vi­sti e più in gene­rale ai social net­work cinesi (sia Weibo, sia Weixin).

La dura repres­sione pre­ven­tiva pro­dotta dalla scure di Xi Jin­ping ha silen­ziato anche chi, sem­pli­ce­mente, amava discu­tere di temi poli­tici, facendo tor­nare la Cina ad una situa­zione che ricorda quella post 1989. Solo che in que­sto caso, in pre­ce­denza, non c’è stato nes­sun evento avvi­ci­na­bile alle pro­te­ste di stu­denti e lavo­ra­tori nel 1989.

I motivi di que­sta nuova ondata di arre­sti sono vari ed hanno a che fare con la natura del potere di governo messo in atto da Xi Jin­ping, le cui atti­vità anti cor­ru­zione (migliaia i fun­zio­nari inda­gati, arre­stati, espulsi) e per il «man­te­ni­mento della sta­bi­lità», hanno finito per mutare la cen­tra­lità del lea­der cinese, dopo anni di gestione col­let­tiva del potere. Non che in pre­ce­denza non ci siano stati momenti di improv­visa e spie­tata repres­sione, basti pen­sare alla «rivo­lu­zione dei gel­so­mini» del 2011; anzi, la neces­sa­ria «armo­nia sociale» è sem­pre stata il primo obiet­tivo delle diri­genze passate.

Quello che è cam­biato è il metodo: Hu Jin­tao e Wen Jia­bao, forse per la man­canza di cari­sma dell’ex pre­si­dente, o per sal­va­guar­dare un par­tito che in alcuni casi ha rischiato di dila­niarsi per scon­tri interni, hanno sem­pre pri­vi­le­giato una gestione col­let­tiva, attri­buendo grande impor­tanza al comi­tato cen­trale e all’ufficio poli­tico del Polit­buro. Xi Jin­ping è giunto al potere, però, pro­prio al ter­mine di uno scon­tro interno che ha messo in evi­denza la natura pre­ca­ria di que­sto equi­li­brio, finendo per sce­gliere la strada di una lea­der­ship deter­mi­nata e tota­liz­zante. Non è un caso che il «prin­ci­pino» abbia accu­mu­lato un potere più ampio di quello che ebbero Mao e Deng Xiao­ping, finendo per riflet­tere, anche, sulla pos­si­bi­lità di rima­nere alla guida di par­tito, stato ed eser­cito anche oltre i cano­nici dieci anni.

L’Occidente «cinese»

La repres­sione degli avvo­cati, rap­pre­sen­tanti di una società civile che rag­giunto un benes­sere eco­no­mico e che cerca anche una via poli­tica e sociale capace di rap­pre­sen­tarla anche poli­ti­ca­mente, testi­mo­nia il ten­ta­tivo della lea­der­ship di man­te­nere tutto sotto il pro­prio con­trollo. Secondo alcuni è un sin­tomo di grande forza, secondo altri di debolezza.

Di sicuro per ora Xi Jin­ping agi­sce indi­stur­bato, avvi­ci­nando la pro­pria para­bola poli­tica a quella dei lea­der occi­den­tali. E in que­sto caso il rife­ri­mento non è solo a Putin, gran­de­mente sti­mato a Pechino pro­prio per il suo cari­sma e la sua capa­cità di cen­tra­liz­zare il potere (anche se ci sono molti dubbi sui suoi azzardi in poli­tica estera che potreb­bero, prima o poi, coz­zare pro­prio con gli inte­ressi cinesi), ma anche alle demo­cra­zie occi­den­tali, in cui è sem­pre più evi­dente un potere deci­sio­nale che è pre­ce­dente, o quanto meno sle­gato dal momento elettorale.

La repres­sione e il fermo con­trollo sociale cinese non sono para­go­na­bili — per ora — a quanto accade nei paesi euro­pei, ma il fatto che la lea­der­ship fini­sca per rap­pre­sen­tare solo gli inte­ressi di un élite e non quelli di lar­ghe fasce della popo­la­zione, insieme ad un uso sem­pre più largo di ope­ra­zione gover­na­tive, anzi­ché par­la­men­tari, crea un inso­lita vici­nanza tra un sistema auto­ri­ta­rio gui­dato da un par­tito unico e una demo­cra­zia (sem­pre meno) rap­pre­sen­ta­tiva occidentale.

E su que­sto filone, dun­que, si può affer­mare che la gestione del potere della Cina è più che mai attuale, con­fer­mando come le voci di una ormai immi­nente caduta del sistema poli­tico pechi­nese siano da con­si­de­rarsi un azzardo.

Non è la Cina che va verso la «demo­cra­zia»; potremmo sem­mai affer­mare — quasi — il con­tra­rio. Sono le demo­cra­zie che cer­cano un sistema sem­pre meno demo­cra­tico per gestire un’economia capi­ta­li­sta, che ormai riduce la poli­tica ad un mero sin­tomo più legato alla comu­ni­ca­zione e all’informazione, che non ad un pro­cesso sociale e popolare.

Il caso Ai Weiwei

Quanto acca­duto in que­sti giorni con­ferma la capa­cità cinese di gestire que­sto livello di comu­ni­ca­zione, anche nei con­fronti dell’Occidente. La Cina lavora da anni affin­ché la pro­pria imma­gine non sia solo asso­ciata a ele­menti nega­tivi: la qua­lità pes­sima del made in China, l’inquinamento, lo sfrut­ta­mento, i dissidenti.

Ma quando depo­ten­zia un rischio, la Cina si sco­pre magna­nima ed è in grado di sfrut­tare in pieno il cor­to­cir­cuito della comu­ni­ca­zione occi­den­tale. Il caso del noto arti­sta e archi­tetto Ai Wei­wei è lì a dimo­strarlo: dopo averlo impri­gio­nato, accu­sato di frode fiscale, mul­tato e poi rila­sciato, dopo quat­tro anni Pechino gli ha resti­tuito il pas­sa­porto. Oltre ad un gesto sim­bo­lico, salu­tato in Occi­dente come il risul­tato di un diritto ina­lie­na­bile al movi­mento (negato a parec­chi cinesi per que­stioni eco­no­mi­che, più che poli­ti­che), la con­se­gna del pas­sa­porto potrebbe anche signi­fi­care due cose: che Ai Wei­wei viene ormai con­si­de­rato disin­ne­scato nella sua poten­ziale capa­cità di scuo­tere la società cinese, o un chiaro invito a salu­tare la Cina e andar­sene nell’Occidente che tanto lo ama (e lo apprezza, come dimo­strano i finan­zia­menti alle sue mostre).

Il fatto che è stato poco sot­to­li­neato — però — è che il suo avvo­cato è ancora in car­cere. Pu Zhi­qiang infatti è in stato di arre­sto dal mag­gio del 2014, fer­mato in seguito al con­sueto repu­li­sti che avviene ogni anno in occa­sione della ricor­renza di Tia­nan­men, e da allora non è stato pro­ces­sato, né gli è per­messo di rice­vere per­sone della sua fami­glia. Per­ché Pu Ziqiang, al con­tra­rio di Ai Wei­wei, almeno oggi, è con­si­de­rato molto peri­co­loso, per­ché parte di quell’insieme di avvo­cati che attra­verso cause rile­vanti ha saputo porre in discus­sione il modello sociale del paese.

E come tale va fer­mato, annien­tato, e infine dimenticato.

 

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