LA STAMPA
Il fallimento? La via migliore per imparare
di Massimo Russo
Il fallimento in Italia è un marchio d`infamia, come dimostra la vicenda del
giudice che si è rifiutato di utilizzare il termine in riferimento a un imprenditore insolvente.
Quasi bastasse vietare una parola per cambiarne la percezione sociale. Invece
una delle condizioni per tornare a crescere, per innovare e trasformare
il Paese, passa proprio attraverso il riscatto sociale del fallimento, della caduta.
È una cosa che abbiamo dimenticato, ma che fa parte della nostra vita, fin da bambini. Se avete figli o nipoti, ricorderete cosa accade quando imparano a
camminare: prima si appoggiano a quel che sta loro intorno. Poi, lentamente, cercano di muovere i primi passi da soli e, ineluttabile, arriva il capitombolo. A quel punto i piccoli, in un misto di paura e di vergogna, di solito scoppiano
a piangere. Noi adulti, invece, li guardiamo e sorridiamo. Perché sappiamo che quel ruzzolone è una parte integrante del processo di crescita. Visto in
quest`ottica, il restare sempre in piedi significa che non ci siamo messi alla prova, che non siamo mai andati oltre i nostri limiti.
La nostra è una realtà che pone una serie difficoltà oggettive a chi fallisce. Sia dal punto di vista legale, sia da quello creditizio. Come può raccontare chiunque sia passato attraverso questo calvario, il fallimento non si limita all`impresa, ma diventa un giudizio sull`affidabilità della persona, una macchia indelebile, un fardello che ti trascina a fondo. Lo testimoniano
i suicidi per ragioni economiche avvenuti negli anni della crisi. Ma – oltre alle difficoltà oggettive esiste una sanzione culturale. In parte perché qui più che altrove ci sono anche gli imbroglioni, non falliti ma bancarottieri. Ma soprattutto a causa del senso di colpa e di peccato associato alla tradizione
cattolica, che ci rende così diversi dai Paesi protestanti, dove i principi di libertà e responsabilità concedono a chiunque una seconda chance.
In realtà non esiste storia di successo che non sia passata anche attraverso fallimenti. A cominciare dalla politica. Personaggi agli antipodi come Winston Churchill e Nelson Mandela in questo erano d`accordo. Il primo amava dire che il successo è la capacità di «passare da un fallimento all`altro senza perdere l`entusiasmo», il secondo che «un vincitore è un sognatore che non
si è arreso». La scienza e l`innovazione sono i campi in cui il fallimento,
la confutazione, da Galileo in poi, sono parte essenziale del progresso. «Non ho fallito, ho semplicemente provato 10 mila metodi che non hanno funzionato», rispondeva l`inventore della lampadina Thomas Edison a chi
gli chiedeva conto dei suoi inizi travagliati.
Sdrammatizzare il fallimento significa considerare il rischio parte integrante del nostro quotidiano. Negli uffici di Facebook, a Menlo Park, campeggia una delle frasi preferite dal fondatore Mark Zuckerberg: «Cosa faresti se non
avessi paura?». Gli fa eco un migliaio di chilometri più in là, a Seattle, Jeff Bezos, il creatore di Amazon: «Sapevo che se avessi fallito non me ne sarei rammaricato. L`unica cosa che mi sarebbe dispiaciuta è non averci provato».
Dovremmo insegnarlo a scuola, ricordarcene ogni giorno: il fallimento,
per quanto faticoso, non è che un`occasione per migliorare. L`importante non è non cadere mai, ma la rapidità con cui siamo pronti a rimetterci in piedi.