IL SOLE 24 ORE
Corte costituzionale. Accolto il ricorso di una coppia di Genova: bocciato l’automatismo in presenza di una diversa volontà dei genitori
Via libera al cognome della madre
Milano. L’attribuzione automatica del cognome paterno ai figli “legittimi” viola la Costituzione, «in presenza di una diversa volontà dei genitori». Secondo la Consulta, intervenuta ieri per la terza volta in 18 anni sul tema del doppio cognome, i tempi oggi sono maturi per rimuovere un vincolo che già nel 2006 la Corte stessa aveva definito «retaggio di una concezione patriarcale della famiglia» – ma fermandosi allora davanti «all’intervento manipolativo» necessario sulla legge.
A proporre nuovamente la questione di costituzionalità è stata la Corte di appello di Genova nell’ambito di una causa promossa da una coppia dopo il diniego dell’ufficiale di stato civile di apporre al loro figlio, nato nel 2012, anche il cognome della mamma. Di qui la boccitaura tout court dell’obbligo di cognome paterno. Questo diktat, per quanto sinora intangibile, non è previsto da una norma specifica ma è desumibile indirettamente dal Codice civile (in materia di figli nati fuori dal matrimonio), da un regio decreto del 1939 e da un decreto del presidente della Repubblica del 2000, che determinano l’attribuzione automatica del cognome paterno. Già nel 1998 la questione era arrivata alla Consulta, che l’aveva respinta in modo radicale, una scelta molto attenuata 8 anni più tardi – ma ancora non decisiva – fino alla sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo che nel gennaio di due anni fa aveva bollato come «discriminatoria» la «visione patriarcale della famiglia» riflessa dalla esclusività del cognome paterno. A seguito di quella sentenza il legislatore si era mosso arrivando – il 24 settembre del 2014 – alla prima lettura alla Camera del Testo unico della famiglia, che prevedeva anche il doppio cognome (o meglio, la possibilità di scegliere alternativamente o entrambi i cognomi dei genitori). La legge, tuttavia, si è poi arenata in Senato per i contrasti in seno alla stessa maggioranza sulla prospettata “deregulation” familiare.
Uno stallo normativo davanti a cui la Consulta si era fermata due volte, ma non la terza. In attesa di conoscere le motivazioni – ieri la causa è stata solo discussa in aula – affidate al giudice Giuliano Amato, la Corte ha anticipato in via ufficiale la dichiarazione di incostituzionalità legata – a quanto si deduce dalla trattazione – alla violazione degli articoli 2 (diritto all’identità personale), 3 (diritto di uguaglianza e pari dignità sociale dei genitori nei confronti dei figli), 29 (diritto di uguaglianza morale e giuridica dei coniugi), e anche dell’articolo 117 della Costituzione in relazione a principi contenuti in convenzioni e risoluzioni internazionali – su tutte quella del 1979 dell’Onu sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione nei confronti delle donne. Ma già 10 anni fa la Corte considerava ormai superata quella visione patriarcale della famiglia, «che affonda le proprie radici nel diritto di famiglia romanistico, e di una tramontata potestà maritale, non più coerente con i principi dell’ordinamento e con il valore costituzionale dell’uguaglianza tra uomo e donna». Parole che il legislatore aveva preferito non cogliere. Alessandro Galimberti