IL SOLE 24 ORE
Concordati, giustificato il giudizio di fattibilità
di Bruno Conca – Giudice Sezione fallimentare tribunale di Torino
Il recente disegno di legge delega in materia di crisi d’impresa, nel promuovere un restyling organico del sistema concorsuale, ha nuovamente ridisegnato – prospetticamente – il concordato preventivo. Tra i tanti indici rivelatori del «passo avanti del giudice», come icasticamente osservato dal vicepresidente del Csm, uno fra tutti costituisce la cifra del nuovo ruolo assegnato al giudice concorsuale e cioè il ritrovato sindacato sulla «fattibilità del piano, attribuendo anche poteri di verifica in ordine alla realizzabilità economica dello stesso». C’è chi teme che gli effetti dell’indubitabile spinta modernizzatrice sul piano organizzativo delineata dalla delega siano frustrati proprio dal nuovo pregnante controllo di merito da parte del tribunale, in netta discordanza da quel Chapter 11 statunitense che ha programmaticamente costituito il principale modello di riferimento del concordato preventivo sortito dalle riforme Vietti del biennio 2005-2007, tutto incentrato sull’autotutela dei creditori ed in cui il giudizio del tribunale non potrebbe mai estendersi oltre la c.d. fattibilità giuridica della proposta, secondo la famosa formulazione delle Sezioni Unite del 2013.
Una diffusa vulgata vuole infatti che quel sistema presupponga un ruolo assai circoscritto del giudice, mero presidio per i creditori all’adeguatezza informativa di un piano che sia fear and feasible. Ora, se questa era indubbiamente l’impostazione originaria del Codice statunitense del 1978 (più volte modificato, in particolare con il Bankruptcy Reform Act del 1994), non può tuttavia sottacersi il ruolo espansivo via via ammesso dalla giurisprudenza. In sede di omologazione, infatti, la Corte, nel caso ci sia opposizione da parte di qualcuno dei creditori impared (cioè danneggiati e, quindi, votanti), è chiamata non solo a comparare reorganization e liquidation, ma anche al giudizio di feasibility, cioè di realizzabilità della reorganization. Inutile dire che, ove si proponga la necessità di tale delibazione, questa non è certo suscettibile di essere scissa tra realizzabilità giuridica e realizzabilità economica, posto che, tanto nell’uno come nell’altro caso, il plan sarebbe irrealizzabile tout court. Di là di ciò, il giudice è poi titolare di un giudizio del tutto peculiare, fondato sulla valutazione caso per caso della buona fede del debitore, tale da assegnargli una non indifferente discrezionalità, specie se letto alla luce dei pervasivi poteri riconosciuti in linea generale dal Chapter 1 (Sez. 105 e 110). È poi importante sottolineare che a partire dal 1994 il legislatore statunitense, con specifico riguardo allo small business debtor, ha sostanzialmente anticipato alla fase iniziale del procedimento il possibile giudizio di feasibility.
Di là di un impraticabile (in pochi cenni) confronto tra i due modelli, deve registrarsi come i problemi con cui i tribunali fallimentari si sono misurati nell’applicazione del concordato preventivo riformato (abusivo ricorso all’automatic stay, eccessività dei costi, velleitarismo dei piani presentati, inefficienza delle scelte di soluzione della crisi, inadeguatezza dell’informazione) non sono diversi da quelli affrontati dalle Corti americane. Ed è chiaro che in un sistema programmaticamente informato al best interest of creditors, una volta ritenuta l’utilità di un ruolo giudiziale verificatore della buona fede della proposta, non c’è spazio per sottili distinguo fra piani solo juridically e non economically feasibles, né tanto meno per dare ingresso a piani che si palesino come economicamente implausibili.
Dati recentemente raccolti da Unioncamere ci parlano di 200 miliardi di assets incagliati nelle procedure concorsuali, di cui 78 negli ultimi cinque anni. Di questi, avuto riguardo all’erompere dei concordati preventivi (tanto più dal 2012), non pochi sono congelati in piani «giuridicamente» fattibili, come tali omologati e, tuttavia, economicamente ineseguibili e, però, di fatto non risolubili, per le ragioni già dette.
È chiaro che una tale disfatta non è più sostenibile, né con riguardo alla ricchezza così “pietrificata” in concordati ineseguibili, né per il futuro, se si proseguisse ad avallare piani sgombri da vizi formali ma di platonica concludenza economica. Ecco, allora, che il restituito controllo giudiziale di realizzabilità economica non va ascritto a nostalgie dirigiste o a strapaesane chiusure alle linee di sviluppo della regolazione della crisi d’impresa, ma proprio all’opposta esigenza di riportare competitività effettiva e, appunto, feasible al sistema.