DIRITTO PENALE CONTEMPORANEO
La legge n.199/2016: disposizioni penali in materia di caporalato e sfruttamento del lavoro nell’ottica del legislatore
di Donatella Ferranti
1. Premessa.
Il 18 ottobre 2016 la Camera ha approvato il disegno di legge, già licenziato dal Senato, relativo alle disposizioni in materia di contrasto ai fenomeni del lavoro nero e dello sfruttamento del lavoro1. Con il provvedimento – legge 29 ottobre 2016, n. 199 – il Legislatore ha messo mano a talune disposizioni del codice penale con l’intento di consegnare agli operatori del settore giustizia più efficaci strumenti per il contrasto al diffuso e grave fenomeno del reclutamento di manodopera in nero, attraverso lo sfruttamento dello stato di bisogno del lavoratore.
È noto che il ruolo culturalmente più nobile da attribuire al diritto penale è quello di selezionare il catalogo dei comportamenti più riprovevoli, la cui consumazione fa sì che scattino il diritto ed il dovere statuali all’esercizio della potestà punitiva sui consociati. Non c’è dubbio, allora, che una condotta illecita che merita di essere avversata con lo strumento del diritto criminale è quella dello sfruttamento del lavoro nero in danno di soggetti deboli, che è stata definita caporalato. Si ricorderà che, in materia, il Legislatore penale era già recentemente intervenuto con il Decreto legge 13 agosto 2011, n. 138, convertito con modificazioni nella Legge 14 settembre 2011, che aveva introdotto il delitto di cui all’art. 603-bis c.p., rubricato Intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro.
Si è dovuto, però, riscontrare che il fenomeno del caporalato persiste tutt’oggi e continua a riguardare un elevato numero di lavoratori, che, secondo le associazioni di volontari e le organizzazioni sindacali, si aggira attorno ai 400.000, come è stato riferito al Parlamento, con punte ancor più significative che si registrano durante la stagione estiva, nella quale sono frequenti le “assunzioni” temporanee nel campo dell’agricoltura, il più interessato dagli illeciti dei caporali, ma non certamente l’unico settore produttivo coinvolto.
In aggiunta a tale, preoccupante stato di cose, si è altresì constatato che i dati relativi ai procedimenti penali iscritti per ipotesi di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro non sono di conforto: 34 sono state le iscrizioni presso gli uffici gip dei Tribunali nazionali; soltanto 8 sono i processi pendenti in fase dibattimentale. I numeri, dunque, consentono di decretare una sostanziale inadeguatezza dell’apparato normativo previgente a reprimere il caporalato e, più in generale, a limitare la capacità criminale delle associazioni per delinquere che sovente gestiscono i flussi di lavoro nero e la manodopera più vulnerabile.
Alla lamentata inattitudine operativa del delitto di cui all’art. 603-bis c.p. a contrastare il fenomeno del caporalato, si sono affiancate critiche in punto di diritto, sollevate da quella parte della dottrina che ha evidenziato obiettive incertezze circa il coinvolgimento concorsuale del datore di lavoro, in quello che era stato tratteggiato come un illecito proprio dell’intermediario.
Ancora in sede di premessa, è opportuno mettere in continuità il presente intervento legislativo con le recenti iniziative di tutela delle vittime vulnerabili di reato, rafforzate per mezzo del d.lvo 24/2014 e, da ultimo, del d.lvo 212/2015, che – come noto – ha dato vita a quello che è stato opportunamente definito “statuto processuale della vittima di reato”: la legge di contrasto al caporalato tutela in particolar modo i lavoratori sfruttati, categoria vulnerabile per eccellenza.
Come si vedrà, infine, l’intento del Legislatore è stato quello di consentire alle persone giuridiche coinvolte nelle indagini riguardanti il datore di lavoro ovvero il di lui intermediario la prosecuzione dell’attività produttiva.
2. Il nuovo delitto di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro.
La principale innovazione che si è apportata con il provvedimento legislativo di cui si discorre consiste nella riscrittura dell’art. 603 bis c.p., che estende la punibilità anche al datore di lavoro. Nella sua precedente formulazione, il delitto puniva, con la reclusione da cinque a otto anni e con la multa da 1.000 a 2.000 euro per ogni lavoratore reclutato, chiunque svolgesse attività organizzata di intermediazione, reclutando manodopera o organizzandone l’attività lavorativa caratterizzata da sfruttamento, mediante violenza, minaccia o intimidazione, approfittando dello stato di bisogno o di necessità dei lavoratori.
Nella nuova fisionomia del reato scompaiono i riferimenti all’organizzazione dell’attività lavorativa, allo stato di necessità del lavoratore soggetto passivo del delitto e, soprattutto, alla violenza, minaccia o intimidazione. Conseguentemente, le pene si sono abbassate da uno a sei anni di reclusione e da 500 a 1.000 euro per ogni lavoratore reclutato.
Violenza e minaccia permangono come circostanze aggravanti del fatto, che sarà, in tali casi, punibile con le vecchie pene da cinque a otto anni di reclusione e da 1.000 a 2.000 euro di multa per ogni lavoratore reclutato.
Per il nuovo delitto di intermediazione illecita è stato inoltre previsto l’arresto obbligatorio in flagranza, in precedenza l’arresto dell’indiziato sorpreso in flagrante era facoltativo.
L’introduzione del delitto base come oggi riformulato era imposto da oggettive esigenze repressive, oltreché dal rispetto dei canoni di ragionevolezza e di eguaglianza. L’attribuzione di rilevanza penale allo sfruttamento della manodopera, anche in assenza di attività di c.d. caporalato, colma una irragionevole lacuna dell’attuale sistema penale, che lascia privi di tutela i lavoratori che non siano immigrati irregolari. Si noti, infatti, che l’articolo 22 comma 12-bis del Testo unico sull’immigrazione (d. lgs. n. 286 del 1998) punisce, con sanzioni penali aggravate, il datore di lavoro che occupi alle proprie dipendenze – non importa se avviati al lavoro mediante “caporale” o meno – lavoratori stranieri privi del permesso di soggiorno ovvero con il permesso scaduto, revocato o annullato, quando i lavoratori siano sottoposti alle condizioni di particolare sfruttamento di cui all’attuale terzo comma dell’articolo 603-bis codice penale. E allora, il lavoratore straniero irregolare, che sia sfruttato dal datore di lavoro in modo da essere esposto a situazioni di grave pericolo, è tutelato con una previsione penale che incrimina il datore di lavoro, a prescindere dall’esistenza o meno a monte di un’illecita intermediazione, mentre il lavoratore non straniero irregolare, ma parimenti sfruttato, non trova oggi una adeguata considerazione se non per il caso in cui sia stato avviato al lavoro in forza della mediazione del c.d. caporale. Si comprende bene così come sia stato importante rimodellare la previsione incriminatrice dell’articolo 603-bis codice penale per rimediare ad una irragionevole limitazione del suo ambito operativo.
Ciò detto, al fine di consentire alla magistratura inquirente e giudicante un agevole individuazione della ricorrenza dello stato di sfruttamento, il Legislatore ha mantenuto, al terzo comma dell’art. 603-bis c.p., l’elencazione di alcuni indici legali di sfruttamento.
Si tratta in sostanza di reiterate corresponsioni di salari palesemente in spregio delle disposizioni della contrattazione collettiva; di reiterata violazione delle norme sugli orari di lavoro; di violazione di norme in materia di sicurezza ed igiene sul lavoro; di sottoposizione del lavoratore a condizioni di lavoro degradante, anche con riferimento a metodi di sorveglianza e/o natura delle situazioni alloggiative offerte. L’efficacia indiziaria si spiega al ricorrere di uno degli indici elencati.
Rispetto alla precedente formulazione degli indici, si sono meglio descritte le situazioni di fatto, che costituiscono indizi legali di sfruttamento del lavoro. Circa la natura giuridica degli indicatori di sfruttamento, si è detto molto opportunamente in dottrina che gli indici svolgono una funzione di “orientamento probatorio” per il giudice: ed è per tale ragione che non ha fondamento il rilievo critico circa l’asserito difetto di determinatezza della norma che li descrive o circa la loro presunta incompletezza.
Quanto alle indicazioni che discendono dalle violazioni reiterate (e non più sistematiche) delle disposizioni sui minimi salariali ovvero sull’orario di lavoro, si noti che gli indici confermano che lo sfruttamento del lavoro nero è una componente abituale del fatto tipico. Come già anticipato dalla giurisprudenza di legittimità che si era pronunciata sulla precedente formulazione del 603-bis c.p., non ogni singola violazione delle normative amministrative in materia di lavoro comporta l’integrazione dello sfruttamento.
Il testo del disegno di legge ha, poi, rivisitato la disposizione relativa alla sussistenza di violazioni in materia di sicurezza e igiene nei luoghi di lavoro, espungendo l’inciso finale «tale da esporre il lavoratore a pericolo per la salute, la sicurezza o l’incolumità personale». È bene chiarire subito che l’eliminazione di tale inciso non indebolisce la forza selettiva della norma incriminatrice, ossia la sua capacità di qualificare soltanto le condotte realmente meritevoli di punizione.
Tenendo fermo che gli indici di sfruttamento non descrivono il fatto tipico e non sono elementi costitutivi del delitto, si comprende pienamente che non c’è alcun pericolo che la modifica possa portare ad un eccesso di penalizzazione, colpendo anche comportamenti dei datori di lavoro che non si segnalino per un particolare disvalore.
In questo senso, anzi, l’eliminazione del riferimento al pericolo per salute, sicurezza ed incolumità personale giova a evitare il rischio di un fraintendimento interpretativo: se si carica la disposizione di orientamento probatorio di un elemento che autonomamente denota un significativo disvalore, si può ingenerare l’equivoco che essa contenga almeno una parte della condotta costitutiva del reato, data dallo sfruttamento della manodopera. Si evita, insomma, il rischio che si possa ritenere la sussistenza dello sfruttamento per il solo fatto che sia stata violata una disposizione in materia di sicurezza o igiene sul lavoro, quasi che la contravvenzione ad una delle tante disposizioni volte appunto a prevenire rischi per la sicurezza dei lavoratori possa integrare la condotta, di ben altro disvalore penale, dello sfruttamento di manodopera.
3. La circostanza attenuante speciale.
Il disegno di legge ha introdotto una circostanza attenuante speciale per il delitto di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro, all’art. 603-bis.1 c.p.; la previsione corrispondentemente rende inapplicabile la circostanza di cui all’art. 600-septies.1 c.p. applicabile a tutti gli altri delitti contro l’incolumità individuale.
Rispetto all’ipotesi generale, la circostanza di nuova introduzione conferma il favor riconosciuto a chi si adoperi per evitare che l’attività delittuosa sia portata ad ulteriori conseguenze, ovvero aiuti l’A.G. nel raccogliere elementi a carico di eventuali concorrenti del denaro, mentre estende la previsione favorevole all’indagato che fornisca concreti elementi per reperire i proventi dell’attività illecita, da sottoporre a sequestro finalizzato alla confisca, che può essere disposta anche per equivalente.
La circostanza assume un tratto strettamente processuale, nella parte in cui prevede che l’ausilio all’investigazione sia fornito «nel rendere dichiarazioni su quanto a sua conoscenza». L’attenuante ha un effetto speciale ancor più spiccato di quella prevista all’art. 600-septies.1: la pena potrà essere diminuita da un terzo a due terzi.
La circostanza è modellata secondo la tecnica della legislazione di emergenza di tipo premiale che, negli ultimi quarant’anni, ha spiegato i suoi effetti in diversi ambiti: delitti contro la pubblica amministrazione (articolo 323 bis del codice penale); delitti commessi per finalità di terrorismo o di eversione dell’ordine democratico (articolo 4 del decreto legge 15 dicembre 1979, n. 625); delitti di mafia e reati commessi avvalendosi delle condizioni previste dall’articolo 416 bis del codice penale, ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni costituite allo scopo di effettuare il traffico di stupefacenti (articoli 73 e 74 del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309); sequestro di persona a scopo di rapina o estorsione (articolo 630 del codice penale); furto (articolo 625 bis del codice penale); riduzione o mantenimento in schiavitù o in servitù o delitti di sfruttamento sessuale dei minori (articolo 600-septies.1 del codice penale); reati ambientali (articolo 452 decies del codice penale); articolo 58-ter della legge 26 luglio 1975, n.354 recante norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà, in tema di eliminazione per chi collabora con la giustizia dl più gravoso regime penitenziario speciale previsto per i condannati per reati di mafia.
Essa è l’espressione di una politica criminale finalizzata, attraverso meccanismi premiali, a sprezzare la catena di solidarietà che lega i protagonisti della fattispecie in esame, animati da un comune interesse e normalmente uniti da un patto segreto che opera nell’ombra e si consolida con l’omertà. Anche attraverso la previsione dell’attenuante in commento, si è voluto conferire il massimo grado di tutela al rispetto della dignità e dei diritti dei lavoratori sfruttati, principale bene giuridico oggetto di tutela della norma.
4. La confisca e il controllo giudiziale dell’azienda.
Si sono poi introdotte ulteriori disposizioni, per così dire, patrimoniali.
In primo luogo, si segnala l’estensione della confisca obbligatoria, anche per equivalente, al delitto di intermediazione illecita, attraverso l’introduzione dell’art. 603-bis.2 codice penale. Inoltre, il delitto in questione viene inserito nel testo dell’art. 16-sexies del d.l. 306/1992, che prevede la confisca cd. allargata anche ai denari ai beni ed alle altre utilità di cui il condannato, anche per interposta persona, risulti titolare.
Tali misure consentiranno di rafforzare gli strumenti dei repressione per evitare la formazione di patrimoni criminali: sarà obbligatoria la sottrazione all’autore del reato delle cose che servirono o furono destinate alla commissione del delitto e dei proventi da esso derivanti.
Come anticipato, poi, si è fermamente voluto difendere il valore commerciale dell’impresa che ha reclutato lavoratori in violazione dell’art. 603-bis c.p. ed i posti di lavoro di questi ultimi. L’art. 3 del disegno di legge prevede che quando ricorrano i presupposti per il sequestro preventivo, ai sensi dell’art. 321, primo comma, c.p., il giudice dovrà disporre in luogo del provvedimento cautelare, il controllo giudiziario dell’azienda «qualora l’interruzione dell’attività possa comportare ripercussioni negative sui livelli occupazionali o compromettere il valore economico del complesso aziendale».
In via pratica, l’A.G. provvederà alla nomina di uno o più amministratori giudiziari, tratti dall’elenco contenuto nel relativo albo. L’amministratore giudiziario affiancherà l’imprenditore nella gestione dell’azienda, con l’obbligo di riferire al giudice ogni tre mesi sull’andamento dell’amministrazione e, in ogni caso, di comunicare senza ritardo in caso di emersione di irregolarità connesse con l’esercizio dell’attività commerciale. Ovviamente, all’amministratore giudiziario verrà attribuito il compito di impedire la protrazione del trattamento degradante dei lavoratori, che dovranno essere regolarizzati, e quello di apportare le necessarie modifiche all’indirizzo commerciale dell’azienda, difforme da quello impresso dall’imprenditore.
Chiude l’insieme delle disposizioni penali-commerciali l’inserimento del nuovo delitto di cui all’art. 603-bis c.p. tra i reati presupposto della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, attraverso un intervento sul testo dell’art. 25-quinquies del decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 231.
5. Conclusioni.
Tirando le fila del lavoro parlamentare che ha condotto all’approvazione del disegno di legge in materia di caporalato, si deve osservare che le misure economiche, su cui da ultimo ci si è soffermati, mirano a tutelare le ragioni, anche patrimoniali, degli imprenditori che perseguono la loro attività nel rispetto delle norme. Nel provvedimento c’è uno spiccato richiamo al rispetto della leale concorrenza nei settori produttivi, che si vuole applicare scoraggiando in ogni forma il ricorso al lavoro nero, al lavoro a giornata, al caporalato.
In tal senso, l’inasprimento del quadro sanzionatorio, realizzato attraverso l’ingresso nell’arsenale punitivo a disposizione dell’Autorità Giudiziaria delle menzionate misure patrimoniali, che affiancano le tradizionali sanzioni penali, è la cifra della volontà di contrastare l’azione di chi accumula ricchezza valendosi dello sfruttamento del lavoro, in spregio delle previsioni sul collocamento, sui minimi salariali, sugli orari massimi di lavoro e, in definitiva, comprimendo in maniera inaccettabile i diritti fondamentali dei lavoratori.
Nei giorni subito successivi all’approvazione del disegno di legge, sono – poi – emerse critiche di coloro che hanno ritenuto che la nuova fisionomia dell’art. 603-bis c.p. esponesse in maniera eccessiva gli imprenditori che – magari anche del tutto occasionalmente – violassero le norme sui salari minimi ovvero sugli orari di lavoro.
È però agevole replicare a tali osservazioni, evidenziando che il datore di lavoro, che è divenuto un autore proprio del delitto di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro, non può commettere il delitto con isolate condotte illecite; al contrario, la descrizione del tipo vuole richiamare il modello di incriminazione proprio dei reati abituali.
D’altra parte, per l’integrazione degli elementi del reato si rivelerebbe inidonea una condotta occasionale: al contrario, il delitto descritto dall’art. 603-bis necessita della ricorrenza congiunta delle condizioni di sfruttamento cui sono sottoposti i lavoratori e del profittamento del loro stato di bisogno. Avendo riguardo a tali categorie, la giurisprudenza della corte di cassazione fornisce indicazioni univoche a sostegno dell’esclusione della rilevanza della condotta isolata del datore di lavoro.
Le pronunce di legittimità sia sull’art. 600 c.p., sia sulla vecchia formulazione dell’art. 603-bis c.p. consentono – come già detto – di affermare che non ogni violazione delle norme poste a tutela dei lavoratori integra lo sfruttamento, così come la giurisprudenza in tema di usura, sia pure non costante sui confini dell’aggravante dello stato di bisogno, afferma pacificamente che questa ricorre in presenza di un impellente assillo del soggetto passivo del reato, tale da impedirgli di collocarsi in condizioni di parità sul piano contrattuale col datore di lavoro. Circa lo stato di bisogno, poi, occorre ancora una volta richiamare le condizioni poste come indici di sfruttamento che – come detto – per essere realizzate necessitano di azioni “reiterate” e non certo episodiche.
La nuova formulazione dell’art. 603-bis in definitiva, come tutto l’impianto del disegno di legge, non cela alcun intento repressivo della produzione; vuole, invece, favorire l’emersione del lavoro nero, realizzare le condizioni di una leale concorrenza tra i produttori, ma soprattutto, combattere con la necessaria fermezza il caporalato e lo sfruttamento della manodopera, fenomeni che, come si è tristemente avuto modo di riscontrare, mettono a serio repentaglio i diritti fondamentali ed alcune volte finanche le vite dei lavoratori.