IL SOLE 24 ORE
Web intelligence contro privacy: regole da definire
di Andrea Barchiesi
In un’epoca in cui gli strumenti di web intelligence sono diventati sempre più precisi, crescono i timori per la privacy e il valore che le si conferisce. Uno scenario conflittuale che cela interessi istituzionali, politici e commerciali.
Il governo Usa ha chiesto supporto ai giganti della Silicon Valley, che dispongono di miliardi di dati di utenti nel mondo, nelle azioni di web intelligence finalizzate alla lotta alla criminalità e al terrorismo. Una richiesta caduta quasi sempre nel vuoto.
Ha fatto discutere il diniego di Apple verso l’ordine di un giudice federale di sbloccare il telefono utilizzato da uno dei sospetti responsabili della strage di San Bernardino che aveva causato 14 vittime. Dopo Apple anche altre aziende hanno affrontato e preso posizione sul tema della privacy e della sicurezza dei dati, ma in assenza di una regolamentazione chiara e condivisa a livello globale, ognuna ha agito orientata dal proprio sentire. Così, da un lato Facebook si è schierata insieme a Google al fianco di Apple, dall’altro ha concesso i propri server ai magistrati che indagano sulla latitanza del boss mafioso Matteo Messina Denaro. Mentre Blackbarry ha subito concesso informazioni su soggetti indagati per narcotraffico alla magistratura torinese.
Uno scenario in cui ciascuno sembra improvvisare, grazie anche all’assenza di un codice che ponga regole e limiti. La posizione di Apple è chiara: in primis la tutela dei consumatori e l’inviolabilità del proprio sistema. Quello che l’azienda tende a difendere è in realtà l’immagine di un sistema inviolabile, più che un diritto. Rifiutare la richiesta dell’Fbi è una posizione scomoda, ma coerente con il modello commerciale, come ha sottolineato l’ad Tim Cook nel suo messaggio. E a sostegno dell’azienda creata da Steve Jobs, nei giorni scorsi è scesa in campo anche l’Onu. Il contesto in cui Apple si muove è comunque una palude, si trattava di scegliere una via o l’altra. E l’azienda di Cupertino ha scelto quella commerciale.
A questo punto è però necessario chiedersi quale sia il limite: di fronte al rischio concreto per la sicurezza delle persone, le aziende hanno ancora la licenza di anteporre il proprio interesse commerciale, scontrandosi con l’opinione pubblica e soprattutto mettendo a rischio la sicurezza dei cittadini/consumatori? D’altro canto è anche opportuno chiedersi come le istituzioni stiano concretamente utilizzando le tecnologie a disposizione per supportare le attività investigative, o quali sono le procedure di web intelligence messe in atto dai governi in chiave antiterrorismo. La Rete è piena di account, pagine, gruppi e community di ogni genere, dal carattere quanto meno borderline. Come viene utilizzato e soprattutto analizzato e monitorato tutto questo materiale dalle istituzioni? Esistono procedure strutturate e meccanismi di alert preventivo quando si rilevano situazioni di questo tipo? Leggiamo spesso di attentati rivendicati da account Twitter o da una pagina Facebook, per poi scoprire che quei profili esistevano da tempo e avevano migliaia di seguaci. L’utilizzo della web intelligence come strumento di monitoraggio preventivo è ancora troppo poco radicato, poco strutturato e spesso utilizzato in modo casuale e tardivo. Tutto ciò rende evidente la necessità di una normativa in grado di stabilire come un’azienda debba comportarsi in questi o simili casi. Per non lasciare che la palude rimanga tale, e per dare regole certe e condivise. E il problema è proprio questo: oggi ci sono giurisdizioni nazionali che di fronte a sistemi e problemi globali non offrono soluzioni e, anzi, rappresentano un limite strutturale della nostra società. Una dimostrazione, questa, di come la legge cerchi di inseguire la tecnologia e i cambiamenti della società. Ma al momento, la legge sembra essere tremendamente indietro.