GUIDA AL DIRITTO
Editoriale verso il congresso di rimini
La rappresentanza non va interpretata come un mestiere
di Alarico Mariani Marini – Avvocato
Remo Danovi è intervenuto sui problemi di un’avvocatura oggi afflitta da grave crisi, con una proposta che è frutto della esperienza compiuta nello studio della professione e nelle importanti cariche che ha rivestito. La proposta coglie il problema critico della rappresentanza, quale è stato declinato negli ultimi decenni: a chi spetti la rappresentanza “politica” della professione, e in cosa essa consista.
Gli ordini nazionali e territoriali, come è noto, rappresentano la comunità professionale nella propria identità culturale ed etica e questo è uno degli elementi che ne caratterizzano la posizione nell’ordinamento giuspubblicistico generale (per questo la Corte costituzionale ha attribuito la materia alla potestà esclusiva dello Stato).
Non è, o meglio non dovrebbe essere, una rappresentanza di interessi di categoria, e neppure una rappresentanza politica in senso proprio perché gli ordini non rappresentano interessi generali della collettività. Possono tuttavia concorrere alla tutela di interessi generali nei settori del diritto e della giustizia per la piena realizzazione dello stato di diritto e dei diritti umani e fondamentali che sono alla base della società democratica, come è scritto (sinora sembra inutilmente) nel Codice deontologico europeo, nella Carta dei Principi dell’avvocato europeo e, soprattutto, nel Preambolo della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea.
Solo in questo senso ritengo che si possa configurare una rappresentanza politica senza decampare in velleitarismi e solo se di questa siano chiari il limite e l’obiettivo, e dunque la proposta di Danovi è condivisibile alla condizione che se ne realizzi il presupposto: che il Congresso, oltre a indirizzare il ruolo istituzionale, indichi le linee dell’azione nella società per la tutela dei valori sui quali si fondano i principi costituzionali della società democratica in applicazione dell’articolo 39 della legge 247/2012.
Il Consiglio nazionale forense ha certamente in questo quadro un compito di rilievo sia nel dialogo istituzionale con lo Stato e le istituzioni pubbliche che tutelano interessi generali, sia di garanzia del ruolo dell’avvocatura, unica professione menzionata nella Costituzione, per le responsabilità che tale “specialità” comporta nei massimi organi di garanzia costituzionale e della giurisdizione e nella società. E ciò favorendo, nel convocare e regolare il congresso, come credo che intenda Danovi, la rigorosa coerenza con i ruoli che abbiamo descritto, e non già nello spirito di compromesso praticato nel passato che ha dato luogo a sovrapposizioni confuse con l’organismo eletto dal congresso proprio sul delicato terreno della rappresentanza.
In passato la contrapposizione tra la rappresentanza istituzionale del Cnf alla ricerca di un più esteso ruolo “politico” e la rivendicazione di associazioni e sindacati per una distinta e autonoma rappresentanza politica in senso ampio ha infatti animato per decenni un dibattito tra le componenti dell’avvocatura.
Al Congresso straordinario di Venezia del 1994, senza altre vie d’uscita, si approdò alla soluzione provvisoria ed evanescente, accettata bon gré mal gré da un rassegnato Cnf, per cui in attesa della riforma della professione il Congresso avrebbe istituito un organismo politico unitario autonomo di rappresentanza politica destinato a costituire in una futura legge una sezione autonoma di un Cnf rinnovato.
Come era prevedibile, l’organismo provvisorio è subito divenuto definitivo nell’attuale Oua al Congresso di Maratea del 1995, con piena autonomia di rappresentanza politica esercitata di fatto in permanente contesa con il Cnf. Quest’ultimo, stretto tra una base molto poco interessata a un ruolo politico di vertice, e molto interessata alla rivendicazione di interessi di categoria, ha finito per non realizzare né gli uni né gli altri. E ora sembra, da alcuni proclami e decisioni, che il Cnf sia volto a interpretare la rappresentanza in modo esclusivo quale centro di interessi professionali in forma di dialogo con il potere politico, con quali obiettivi si vedrà, ma certo spetterà al prossimo congresso di Rimini decidere prima che sia tardi.
Sulla rappresentanza, pertanto, la soluzione recepita dalla riforma del 2012 non costituisce una novità in sè perché di fatto già esisteva, anche se gestita confusamente non ha sortito effetti positivi al punto che è opinione diffusa che abbia accentuato il tradizionale immobilismo delle istituzioni forensi e contribuito a segnare il distacco tra l’avvocatura e la società, una società che non le riconosce oggi alcun ruolo di garanzia dei diritti costituzionali né alcun rilievo sociale a onta dei comunicati disseminati sui media.
Per tutto ciò il progetto di Danovi propone una svolta razionale ed equilibrata, e, se realizzato, avvierebbe un percorso virtuoso per uscire dalla crisi.
Ma occorre un profondo ripensamento sulla funzione etica e culturale dell’avvocatura nella società d’oggi, per immaginare un futuro meno avvilente soprattutto per le molte migliaia di giovani che stanno scontando gli errori del passato, e ciononostante ancora credono nella professione e in un futuro di giustizia, di eguaglianza e di pace.
È un vasto programma, come disse un noto generale, ma altrimenti temo che le buone e sagge intenzioni di Danovi finiranno per essere frustrate da coloro che stanno oggi interpretando la rappresentanza come un mestiere, anche ben retribuito; idea, del resto, al tempo d’oggi niente affatto originale.