GUIDA AL DIRITTO
Processo civile, il rito cambia ma l’arretrato non si muove
di Giuseppe Sileci | 5/9/2016
È con un certo sollievo che ho accolto i dati pubblicati dall’Istat e relativi al secondo trimestre del 2016. Ovviamente, non mi rallegro affatto della crescita zero registrata nel periodo, ma debbo confessare lo smarrimento che mi aveva assalito leggendo le slides con le quali, appena alcuni giorni prima, il Governo aveva voluto sintetizzare gli indicatori economici dopo 30 mesi.
Forse perché non appartengo a quei dieci milioni di italiani che possono spendere 80 euro in più al mese, ma il quadro ottimistico che emergeva da quei numeri non coincideva affatto con la percezione che ho io (e, per la verità, non soltanto io) della situazione reale.
Ancor meno giustificati, poi, mi sono sembrati i toni trionfalistici sulla giustizia civile. La slide in questione confrontava l’arretrato di ieri (5.600.000 cause pendenti) e di oggi (3.800.000 cause pendenti), così dando la sensazione di un abbattimento davvero drastico e repentino delle giacenze. Ma il confronto omette di precisare che l’ieri di riferimento è il 2009 (a tale data l’arretrato civile era di 5.700.105 processi) e che da quell’anno è iniziato un graduale ridimensionamento. Alla fine del 2013 le cause civile pendenti erano 4.681.098 e dunque negli ultimi trenta mesi si sarebbe registrato un taglio di 794.813 fascicoli: non poco, indubbiamente, ma questo risultato è verosimilmente influenzato dalle minori sopravvenienze. Nel sito del Ministero della Giustizia, dove si rinvengono le ultime statistiche da quando il monitoraggio di questi dati non è più affidato all’Istat, le ultime rilevazioni sui fascicoli sopravvenuti si arrestano al 2012.
Spigolando tra quei numeri, si scopre così che dal 2009 al 2012, ad esempio, le cause di opposizioni a sanzioni amministrative sono crollate verticalmente: da 992.570 fascicoli si è scesi a 344.666. Quegli affari, di competenza quasi interamente del Giudice di pace, non si sono contratti grazie a chissà quale riforma processuale ma, molto più banalmente, a causa della introduzione, nel 2009, del contributo unificato per questo tipo di contenzioso, prima esente.
Ed è difficile dubitare dell’effetto deterrente ottenuto in maniera generalizzata dagli aumenti del contributo unificato, che hanno reso certamente più costoso – e dunque scoraggiato – l’accesso alla giustizia. Nell’ottica del Governo, si tratta di un risultato (un minore numero di processi sia come sopravvenienze che come giacenze) fortemente cercato ma ininfluente ai fini di una più ragionevole durata dei processi: nel 2014, mediamente, una causa civile durava 1.044 giorni contro i 992 del primo semestre del 2016.
Un miglioramento di appena due mesi che è ben poca cosa e che conferma la inadeguatezza di tutte le riforme che si sono succedute negli ultimi anni e che hanno letteralmente stravolto il rito civile. E poiché tra le tante ipotesi di riforma circolate in questi mesi vi era anche la estensione del rito di cognizione sommario a tutte le cause di competenza del Tribunale in composizione monocratica, poi stralciata, una riflessione – dati alla mano – sulla utilità di questa misura sarebbe auspicabile prima di rendere di applicazione generale un procedimento che, da quando è stato introdotto nell’ordinamento, non pare abbia dato prova di grande efficienza. Eppure, sempre nel sito del Ministero della Giustizia non un numero si rinverrebbe su quanti processi siano stati celebrati con il rito sommario di cognizione dopo il 2012 (quell’anno ne sarebbero stati avviati 26.661) e tanto meno si rinverrebbero dati sulla durata media di queste cause.
Più in generale, confrontando le statistiche del Ministero con quelle dell’Istat (l’ultima, che è del 2007, sembra molto più dettagliata di quelle pubblicate nel sito istituzionale della Giustizia), si ha la sensazione che non sia stata una buona idea quella di affidare al dicastero il compito di aggregare e disaggregare i numeri dell’amministrazione giudiziaria e che un miglior servizio si sarebbe fatto alla causa dell’efficienza (che presupporrebbe uno studio dei dati esistenti per meglio calibrare le riforme) se invece si fosse lasciato all’Istituto di Statistica questa mission: ciò anche in nome di quella trasparenza che, sbandierata come uno slogan, è un concetto di cui negli ultimi anni in questo paese si è forse abusato.