IL SOLE 24 ORE
Sul diritto all’oblio serve la voce delle Sezioni unite
di Caterina Malavenda
Sab. 23 – Cosa accadrebbe se improvvisamente la nostra memoria, con procedura selettiva, cancellasse tutti i ricordi tristi o spiacevoli, consentendoci di rammentare solo gli avvenimenti lieti e quelli risalenti a non oltre due anni e mezzo addietro? È quello che potrebbe accadere alla memoria collettiva, rappresentata dagli archivi di giornali e televisioni, se la sentenza della I Sezione civile della Cassazione, che ha confermato quella del Tribunale sul “diritto all’oblio”, non verrà “cancellata” da un improcrastinabile intervento delle Sezioni Unite, che finalmente fissi i criteri necessari a contemperare il diritto a essere dimenticati con il diritto a ricordare.
La vicenda è nota: un ristoratore, nel cui locale si era verificata una rissa con accoltellamento, aveva chiesto a un giornale on line locale la rimozione delle pagine web, contenenti l’articolo che ne aveva dato notizia, nonostante il fatto risalisse ad appena due anni e mezzo addietro e il processo fosse ancora in corso. Il titolare del sito aveva, perciò, respinto la richiesta ma, nelle more del procedimento, instaurato dall’interessato, aveva deciso di cancellare l’articolo. Il Tribunale ha ugualmente valutato la domanda, anche se solo per la liquidazione delle spese, riconoscendo la legittimità della pubblicazione e la prevalenza del diritto di cronaca, per un tempo non superiore, però, a quello necessario a raggiungere lo scopo informativo, che ha considerato validamente decorso, passati appena diciotto mesi, esattamente quelli intercorsi fra la pubblicazione dell’articolo e la diffida a rimuoverlo.
La Cassazione si è limitata a confermare in toto la sentenza, con una motivazione che, visti gli interessi in gioco e le prevedibili conseguenze, avrebbe meritato almeno qualche parola in più: sono aumentate, infatti ed in modo considerevole, le richieste di rimozione, che richiamano proprio tale decisione che, per la sua laconicità, le alimenta.
Com’è noto, nel nostro ordinamento non esiste un diritto all’oblio, al punto che l’articolo 17 del Regolamento europeo 2016/679, relativo al trattamento dei dati personali, si occupa del «diritto alla cancellazione (diritto all’oblio)» e lo inibisce ove il trattamento sia necessario all’esercizio del diritto alla libertà d’espressione e di informazione o ai fini di archiviazione nel pubblico interesse. E tuttavia, tale precisa scelta non sembra aver condizionato la sentenza, che non ha tenuto alcun conto dell’attualità del fatto, derivante dalla pendenza del processo. Il diritto all’oblio, così, finisce per rimanere disancorato da uno dei suoi capisaldi, la definitiva conclusione della vicenda, che ne fa venir meno, nel tempo, l’interesse pubblico.
Ma c’è di più, perché la struttura tranciante della motivazione tralascia di considerare anche gli altri criteri, fin qui applicati, per valutare le singole richieste, quali la natura delle notizie, alcune delle quali, per la loro rilevanza, non perdono mai di interesse e non dovrebbero, perciò, essere cancellate dalla memoria collettiva; o il ruolo pubblico del protagonista che consente, ove addirittura non imponga, la conservazione delle informazioni che lo riguardano; o il ricorso ai rimedi intermedi, dall’aggiornamento alla deindicizzazione, adottati per contemperare appunto le esigenze contrapposte.
Certo le regole ci vogliono e sono state anche individuate dal Garante della privacy, che di recente ha ritenuto legittimo il rifiuto di cancellare le pagine web che si occupavano di un ex terrorista, poiché il diritto all’oblio incontra un limite quando riguarda crimini di particolare gravità. Per converso, la sentenza sembra “disegnare” il diritto assoluto di esigere la cancellazione di qualunque notizia scomoda, anche non datata, esercitando il quale anche personaggi noti alle cronache e non come benefattori potranno rivendicare una verginità mediatica che l’appiattimento miope su principi rigidi potrebbe ridar loro. Le conseguenze di un’indiscriminata rimozione delle pagine web a richiesta finirebbe per privare chi vuole informarsi dello strumento principale, il ricorso ai motori di ricerca collegati a siti sorgente, che potrebbero rapidamente essere svuotati della gran parte dei loro contenuti.