L’INTERVENTO/2: Tortura e G8 la ferita non sanata di Gianluca Di Feo (La Repubblica)

LA REPUBBLICA

Tortura e G8 la ferita non sanata

di Gianluca Di Feo

C’è una cultura dell`impunità che si nutre di cavilli, di interessi particolari e di calcoli politici e che lentamente mina i fondamenti dello Stato di diritto: fa perdere la fiducia nella possibilità di avere una giustizia di livello occidentale.
L`ultimo episodio di questa deriva si è manifestato con la dissoluzione del disegno di legge per punire la tortura.
Quello che sta accadendo non nasce da un disegno esplicito, come in parte invece è avvenuto negli anni berlusconiani, ma il risultato finale resta immutato ed è il crollo di credibilità delle istituzioni, con una classe politica incapace di mantenere le promesse e di introdurre le riforme indispensabili per il Paese.
Bisogna anzitutto ricordare che siamo davanti a una questione di diritto
fondamentale. L`Italia si è impegnata a introdurre il reato di tortura nel
1989, quando ha ratificato la convenzione dell`Onu. Archiviati gli anni di
piombo, in una stagione di trasformazioni epocali e di grandi speranze quello
della tortura sembrava un problema lontanissimo, quasi un dibattito accademico sui principi, senza riferimenti alla realtà. Poi nel 2001 ci sono
stati i fatti di Genova, la “macelleria messicana” nella scuola Diaz e le violenze di Bolzaneto con pestaggi e sevizie indiscriminate su centinaia di persone: una pagina nera, straordinaria nella storia delle nostre forze dell`ordine, che però resta senza precedenti in tutto il mondo occidentale. Quella ferita non è stata ancora sanata.
Lo scorso anno la Corte europea dei diritti dell`uomo ha condannato il nostro
Paese, riconoscendo la richiesta di giustizia di Arnaldo Cestaro: un signore
di 61 anni che al momento dell`irruzione nella Diaz si è messo davanti a una parete con le braccia alzate, ma è stato picchiato ferocemente. Ha subito fratture multiple e traumi che gli hanno segnato la vita, ottenendo soltanto un risarcimento di 45 mila euro: gli autori della violenza non sono stati né identificati, né sanzionati. E i giudici di Strasburgo hanno rilevato un “difetto strutturale nell`ordinamento giuridico italiano che può impedire la punizione dei responsabili di tortura e di atti inumani e degradanti”. L`introduzione di questo reato è una tutela per tutti i cittadini, non un atto di criminali7zazione verso agenti e carabinieri. Il rispetto e la stima degli italiani nei confronti delle forze dell`ordine sono fuori discussione. Invece le dichiarazioni con cui numerosi parlamentari hanno commentato il rinvio della legge sono anacronistiche e sembrano riportare in una clima da anni Settanta, distinguendo tra chi è con la polizia e chi è contro: un clima che non trova riscontro nel Paese. È stata persino evocata la strage di Nizza e il rischio di “disarmare gli agenti di fronte alla minaccia jihadista”. Ma né l`allora capo della polizia Alessandro Pansa durante l`audizione a Montecitorio, né sigle della galassia sindacale della polizia, come il Siap o l`Anfp, hanno contestato il nuovo reato. Hanno posto solo una questione tecnica: la necessità di varare una legge chiara, che elimini al massimo le zone di ambiguità tra il legittimo uso della violenza da parte delle forze dell`ordine “con una reazione adeguata all`entità dell`aggressione” e la definizione di tortura.
L`incubo comprensibile è che- una norma confusa possa scatenare una
moltitudine di denunce pretestuose contro agenti e carabinieri. E la tesi sostenuta martedì dal ministro dell`Interno che ha parlato di «equivoci
nell`uso legittimo della forza». Mentre alcuni esperti di diritto sostengono
che le regole archiviate dal Senato siano “più idonee a proteggere l`operato
delle forze dell`ordine che non le vittime”. Possibile che in 27 armi le Camere
non siano state capaci ai elaborare una legge che superi il rischio di interpretazioni dubbie? Eppure si tratta di regole in vigore nel resto d`Europa da molto tempo, che in tutto il mondo traggono fondamento nell`opera pubblicata da Cesare Beccarla nel 1764: non è certo mancato il tempo per riflettere.
Un anno fa, all`indomani della condanna di Strasburgo, il premier Matteo Renzi rispose a un tweet critico di Luca Casarini: «Quello che dobbiamo dire lo dobbiamo dire in Parlamento con il reato di tortura. Questa è
la risposta di chi rappresenta il Paese». Una risposta che gli italiani stanno
ancora aspettando.

Foto del profilo di Andrea Gentile

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