IL MESSAGGERO
Doina torna in cella per Facebook
I limiti nel recupero dei detenuti
di Paolo Graldi
Siccome ci sentiamo tutti un po` giudici e ci piace tanto sentenziare
(sugli altri), assolvendo e condannando con gli arnesi di cui disponiamo all`impronta, ecco che il caso di Doina Matei, tolta di peso dalla semilibertà di cui godeva per aver diffuso delle sue foto su Facebook, ha scatenato la rissa mediatica. Con una partecipazione di grida, strepiti, affanni ed anche insulti che rispecchia le facce di un Paese ancora immerso in una visione della Giustizia davvero controversa.
Da una parte chi si scaglia contro la giovane detenuta, trent`anni, due figli, un
passato disastroso e di strada, nove anni su sedici già scontati per l`”omicidio preterintenzionale” di Vanessa Russo, 23 anni, assassinata con la punta dell`ombrello per un banale litigio, e chi invoca di tenerla per il resto della pena dietro le sbarre, magari anche oltre, preferibilmente buttando la chiave.
I fatti. Doina fino all`altra sera godeva di un regime di semilibertà e, all`interno di questo status, di un permesso premio che le consentiva di restare fuori dal carcere anche di notte. Per il resto, lavoro in una pasticceria, rientro alla casa madre alle 22 per riuscirne dopo le 6. L`euforia di quelle ore “libere” l`ha tradita: si è fatta scattare una sequenza di foto, in pose gioiose,
i pollici levati in segno di vittoria, le braccia allargate in un abbraccio immaginario. Il tutto in pullover e pantaloni ma anche in pantaloncini e maglietta e perfino in bikini con lo sfondo del mare della laguna veneziana. Il tutto postato su Facebook e centoventi amici ad accogliere e pronti a rilanciare quelle immagini.
A guardarle si poteva considerarle davvero inappropriate, una idea banale e
tuttavia fuori misura, una esibizione certamente inopportuna, considerate le circostanze. E non sarebbe stato sbagliato un giudizio anche severo. Le cose sono precipitate ed hanno indotto il giudice di sorveglianza a “interrompere temporaneamente” quel beneficio previsto dalla Legge Gozzini perché Doina doveva sapere che il permesso premio viaggiava su un binario di adempimenti non elastici, ma anzi da osservare scrupolosamente: poteva, per esempio, usare il “cellulare” ma solo per parlare con l`istituto di pena, con un preciso ufficio penale, col datore di lavoro e con alcuni soggetti “esterni” accuratamente elencati ed autorizzati. Niente social network, assolutamente.
Una condizione non specificata nelle prescrizioni ma neppure compresa tra le eccezioni.
Lei adesso dice che non lo sapeva e l`idea di essersi mangiata per un pacchetto di scatti tutti i benefici per buona condotta accumulati in questi anni la consegna alla disperazione. Non è detta l`ultima parola. Gli avvocati che la difendono, Nino Marazzita in primis, anzi, sperano che il colpo di mannaia non divenga definitivo e che la “sentenza” sia rivista. Anzi, cancellata e tutto torni come prima. Il ministro guardasigilli Orlando, rispondendo al question time in aula, ha chiarito i contorni tecnico giuridici del caso e ha respinto le proposte di riempire «vuoti normativi» oppure «interventi ulteriori» sulle leggi vigenti. In sostanza: le disposizioni sono chiare, fine del dibattito. C`è chi rilancia: si abbatte un impegno per un riscatto sociale e di reinserimento e si ripete che Doina è davvero pentita di quel che ha fatto. Certo, non si può chiedere comprensione ai genitori di Vanessa Russo, trafitta in volto con la punta di un ombrello (il 26 aprile 2007) alla stazione Termini, dopo un litigio lampo proprio con Doina, scatenata nella violenza e furiosa nel cercare la via di fuga. Un giorno di agonia e poi Vanessa se ne è andata
con i suoi 23 anni e la vita spezzata per una rabbia cieca e stupida. Anche la
Cassazione, definendo il caso che tanto ha impressionato per la inusitata violenza che sprigionava, ha accettato la tesi dell`omicidio preterintenzionale. Non è di gran consolazione per i genitori di Vanessa ma va anche detto che sedici anni, per la nostra giurisprudenza, sono uno standard accettabile. In altre vicende, come quella del pugno mortale sferrato a freddo contro una donna alla stazione Tiburtina, il verdetto – cinque anni – è apparso assai lieve, indigeribile.
Il dibattito andrà avanti all`infinito perché si anima sul palcoscenico di una
Giustizia che viene percepita troppo difforme da caso a caso, da giudice a giudice, perfino da un ufficio all`altro. In un balletto di sentenze o comunque di provvedimenti che, pur nelle mille differenze e i tanti distinguo che li caratterizzano, appaiono viziati da una giurisprudenza maneggiata senza un`armonia di fondo che li rende ovunque e comunque credibili.
E non di rado, la Suprema Corte, interviene con i suoi giudizi che non sono
mai nel merito ma severissimi sul metodo. Resta su tutto il tema della rieducazione dei condannati. C`è ancora chi non ci crede, proprio per nessuno, e li vorrebbe fuori, cioè dentro, una volta per tutte.
E questo è anche peggio del detenuto che sbaglia.