IL SOLE 24 ORE
Il fallimento può chiudere ma deve gestire i processi
di Sergio Locoratolo – Docente di diritto commerciale dell’Università di Foggia e componente del comitato scientifico Igs
Lun.4 – Gli ultimi provvedimenti legislativi di riforma della legge fallimentare sembrano rispondere all’obiettivo prioritario di velocizzare la procedura concorsuale. Il decreto legge 59 del 2016 (Dl banche) e il decreto legge 83 del 2015 (mini riforma della legge fallimentare) rispondono all’esigenza di rendere più efficiente e rapida l’attività del curatore e di ridurre la sua discrezionalità. In questa logica va letta la modifica dell’articolo 118 della legge fallimentare, dedicato alla chiusura della procedura, operata dal Dl 83 del 2015.
La riforma consente, nell’ipotesi in cui sia stata compiuta la ripartizione dell’attivo, di chiudere il fallimento in presenza di giudizi pendenti. Al contempo, per evitare la prosecuzione illimitata dei giudizi rimasti aperti, con la conversione in legge del Dl 83 del 2015, il legislatore ha riformato gli articoli 43 e 169 della legge fallimentare, prevedendo un regime di “priorità” per quei giudizi che, pur non impedendone la chiusura, traggono origine dalla procedura concorsuale. Questa corsia preferenziale riguarda non solo i giudizi di immediata “derivazione” dalla procedura di fallimento o di concordato preventivo, ma anche quelli, sia di natura di cognizione che di esecuzione, in cui una delle parti sia comunque rappresentata da una procedura concorsuale. La possibilità di chiusura del fallimento in presenza di giudizi è espressamente limitata all’ipotesi in cui sia stata completata la ripartizione dell’attivo.
Tuttavia, la disposizione sembra che si possa estendere anche al caso in cui il fallimento non abbia attivo, o se questo non sia sufficiente al pagamento dei crediti prededucibili e delle spese di procedura (articolo 118, comma 1, n. 4, legge fallimentare). E ciò perché la realizzazione di un eventuale attivo potrebbe essere proprio l’effetto, e la conseguenza, di giudizi attivati dal curatore e ancora pendenti al momento della chiusura della procedura.
L’articolo 120, comma 5, della legge fallimentare prevede poi che in caso di chiusura in pendenza di giudizi, il curatore e il giudice delegato restino in carica con funzione limitata, ovvero per garantire la definizione degli stessi giudizi. Essi operano, pertanto, in regime di prorogatio, e ciò in deroga a quanto previsto dall’articolo 121 della legge fallimentare per l’ipotesi di riapertura del fallimento. Di contro, con la chiusura formale cessano le funzioni del comitato dei creditori, che sono attribuite al giudice delegato. Le somme acquisite dal fallimento a chiusura dei giudizi rimasti aperti devono essere oggetto di un riparto supplementare, a opera del curatore. Tali disponibilità, nonostante il fallimento risulti formalmente chiuso, non potranno costituire oggetto di pretese da parte dei creditori. Inoltre, la ripartizione delle somme acquisite successivamente dal fallimento chiuso per mancanza di attivo, e che siano tali da soddisfare, sia pure parzialmente, i creditori, consentirà di far decorrere i termini per ottenere, da parte del fallito persona fisica, il provvedimento di esdebitazione. Con la precisazione che i requisiti, soggettivi e oggettivi, necessari a conseguire il beneficio dovranno essere posseduti dal fallito al termine del riparto supplementare. Nonostante nulla la riforma dica sul punto, sembra evidente che il compenso del curatore, normalmente parametrato all’attivo e al passivo accertato alla chiusura del fallimento, debba calcolarsi solo all’esito del riparto supplementare e, dunque, tenendo conto delle sopravvenienze.
In sostanza, come si evince dalle norme, il contenuto innovativo della chiusura della procedura in pendenza di giudizi, appare limitato. Alla chiusura formale del fallimento, infatti, non corrisponde la sostanziale cessazione degli effetti del procedimento. Anzi, la gran parte dei diritto soggettivi rimane intimamente connessa all’estinzione dei rapporti pendenti. Così la soddisfazione dei creditori, la cessazione delle funzioni degli organi della procedura, l’esdebitazione del fallito trovano il loro esito definitivo solo a seguito della ripartizione supplementare.
Rimane il fatto che chiudere anticipatamente il fallimento sembra rispondere più ad esigenze di natura statistica che sostanziale. La vera ragione ispiratrice della riforma sembra potersi individuare nella necessità di contenere i tempi medi delle procedure concorsuali e, con essi, i risarcimenti conseguenti alla violazione delle norme, nazionali ed europee, sulla ragionevole durata del processo.