IL MESSAGGERO
L`intervista
Mirabelli: «Tra governo e magistrati uno scontro di potere che non fa bene a nessuno»
ROMA «La prima parola che mi viene in mente è questa: equilibrio. Ovvero una dote fondamentale nell`attività di un magistrato anche quando il suo lavoro ha un impatto molto forte sull`opinione pubblica»: Cesare Mirabelli,
presidente emerito della Corte Costituzionale, parte da qui per commentare, nel suo complesso, il caso Ilva nel giorno dei 47 rinvii a giudizio per disastro ambientale.
L`impressione è che il futuro dell`Uva sia sempre più nelle mani della magistratura. «Dobbiamo distinguere. La decisione del rinvio a giudizio mi sembra inevitabile rispetto a vecchi episodi e responsabilità che sono state individuate. Il punto è come assicurare la continuità della produzione di un`industria essenziale per il Paese nel rispetto della tutela primaria della salute e dell`ambiente».
Per questo il governo ha dovuto fare finora sette decreti, dei quali l`ultimo è finito davanti alla Corte Costituzionale. «Uno scontro di potere che non fa bene a nessuno. Domandiamoci, innanzitutto, come siamo arrivati a questo punto: sicuramente si parte dalle colpe di imprenditori che non hanno osservato alcune norme e dunque hanno commesso dei reati».
Ma i sequestri degli impianti, che mettono a rischio migliaia di posti di lavoro, erano sempre indispensabili? «La Corte Costituzionale ha già dato un parere che mi sento di condividere in pieno. Ci vuole un
ragionevole bilanciamento degli interessi, cioè da una parte il diritto al lavoro e dall`altra le condizioni di sicurezza per la salute e per l`ambiente. Ciò significa, per esempio, non eccedere nell`uso dello strumento del sequestro preventivo degli impianti».
Il contrario, però, di quello che siamo vedendo a Taranto. «Vede, è lo stesso discorso che si può applicare rispetto alla custodia cautelare. Bisogna farne un uso sobrio. E la Corte Costituzionale con la sua sentenza non tira la palla in corner, non si chiama fuori, ma scandisce bene il metodo per arrivare a una soluzione nell`interesse di tutti e per evitare un conflitto istituzionale, un vero braccio di ferro, tra potere politico e giudiziario».
Per lei il Csm condivide questa impostazione visto che non interviene quasi mai nei confronti di magistrati che eccedono? «Il Csm non ha alcuna possibilità di intervenire nel merito di una singola decisione, se lo facesse metterebbe in discussione l`indipendenza del magistrato. Però ne può valutare la professionalità, a partire dall`equilibrio, e in base a questa fare le necessarie verifiche e decidere avanzamenti di carriera. E può lavorare su un punto che è stato piuttosto trascurato negli ultimi anni: la formazione dei magistrati».
A questo proposito lei ha detto che la professionalità delle toghe è messa a rischio dall`attrazione delle sirene della notorietà. In Puglia stiamo vedendo qualcosa del genere? «Non posso dirlo con certezza. Però confermo le mie parole, e purtroppo una certa pressione
dell`opinione pubblica, anche attraverso gli organi di informazione, e una certa politica che ha arruolato con disinvoltura titolari di inchieste poi finite nel nulla, inducono alcuni magistrati a prendere posizioni eclatanti. A sentirsi campioni di un caso giudiziario. E questo di fatto è il contrario dell`equilibrio e della proporzionalità delle misure adottate».
Tornando a Taranto, intanto ci sono tre commissari che la bonifica
la stanno facendo. «Già, è vero. Un motivo in più perché la magistratura agisca con il necessario equilibrio. Lo dico con una battuta: i magistrati
non devono mai chiudere gli occhi, ma neanche guardare sempre i fatti con il microscopio.
Complessivamente il risanamento di Taranto costerà non
meno di 1 miliardo e mezzo di euro. Quale imprenditore metterà mai questi soldi sul tavolo in un clima di tale incertezza e di perenne scontro tra il governo e la magistratura? «Lei ha ragione, però potrei ribaltare la domanda. Quale profitto è stato realizzato in questi anni a Taranto, da imprenditori privati, scaricando i costi di mancate bonifiche sulla collettività?».
I Riva sostengono di avere investito 4 miliardi per la sicurezza. «Ammesso che sia vero, però è legittimo domandarsi: bastavano questi soldi? La sicurezza e la bonifica, mi rendo conto, rappresentano un costo che incide sul conto economico. Ma non pagarlo in modo equo, significa fare un danno alla collettività e concorrenza sleale con le altre imprese che invece questi soldi li tirano fuori» Antonio Galdo