LA REPUBBLICA
IL FUTURO DELLE CARCERI. MAURO PALMA, GARANTE DEI DETENUTI, INTERVIENE NEL DIBATTITO
Palma: “Trasferire le vecchie prigioni sì
ma non in una periferia-deserto”
ROMA. «Lei mi chiede se è giusto trasferire le carceri dai centri cittadini alle periferie, come ipotizza il piano del governo. E io le rispondo che prima bisogna chiarire un punto: cosa intendiamo quando parliamo di periferia?».
Cosa intendiamo, professor Mauro Palma? Lo spieghi lei, Garante dei detenuti. «Le faccio un esempio che non c`entra con il carcere: a Roma c`è íl Corviale. Lo progettarono bravi architetti, prevedendo che il terzo
piano degli edifici fosse dedicato ai servizi. Andò diversamente, con strutture a una tale distanza dal contesto urbano che persero la loro funzione. Lo spazio non è qualcosa a sé, conta il territorio nel quale collocarlo».
Cosa conta per un carcere in periferia? «Se quello spazio è concettualmente e strutturalmente vicino al resto del contesto urbano. Pensi a Poggioreale: è al centro, ma è collegato a Napoli peggio di Secondigliano,
che invece si trova in periferia. Se mancano i collegamenti, la socialità e l`urbanizzazione dei luoghi, allora non funziona».
Quindi non boccia a priori il piano? «Il punto è che esistono due strade. La prima è migliorare il patrimonio edilizio esistente. Ci sono direttori di carceri che fanno i salti mortali, in spazi anche piccoli. Oppure si può ragionare partendo da quale esecuzione penale vogliamo».
E dove porta questa strada? «Si decide di organizzare lo spazio in funzione di un modello che punti a una riduzione della recidiva e a reintegrare i detenuti nel sistema, per una pena non solo afflittiva».
In questo caso come si riorganizzano gli spazi? Faccia qualche esempio. «Carceri con un lungo corridoio centrale non rispondono a questo modello: così non si risocializzano le persone. Riorganizzerei lo spazio abolendo il concetto di mura di cinta intorno uffici e servizi, al centro le strutture detentive, in piena sicurezza. Con unità più piccole, aggregate: massimo dieci detenuti, con cucina comune, per favorire la socialità. Vede, questo a Regina Coeli non si può fare».
Immaginiamo che le carceri dei centri storici diventino centri commerciali. «Mi preoccuperei se lo diventasse Regina Coeli. I luoghi portano una memoria, trasmettono un significato. Questo non significa cedere alla musealizzazione. Ma una volta a Copenaghen ho dormito in un vecchio carcere trasformato in hotel: ho avvertito fastidio».
E allora come li immagina? «Con una funzione sociale: una parte dedicata all`accoglienza, un`altra riadattata per forme di custodia come la semilibertà».
Se il carcere sparisce dalla vista, si rischia di rimuove l`idea stessa del male? «Sì, però non accade solo in periferia. Pensi al campo migranti vicino alla stazione Tiburtina. Era al centro, eppure il `rimosso” c`era».
Per concludere: l`importante è che la scelta non sia tra celle sovraffollate al centro e nuove asettiche “cattedrali nel deserto”? «Esatto. Tra l`altro dico sempre che forse è meglio sentire il rumore dei chiavistelli che non sentire niente, come accade in alcune carceri “tecnologiche” europee. Mi spavento quando sparisce ogni traccia di relazione». TOMMASO CIRIACO