IL SOLE 24 ORE
Orlando: «Terrorismo, l’Italia dice no al coprifuoco»
Sab. 5 – «Non siamo in guerra, non ci sono stati strappi costituzionali e la missione in Libia non prefigura misure eccezionali contro il terrorismo». Il ministro della Giustizia Andrea Orlando assicura che, nonostante l’innalzamento del livello di allerta, «la strada scelta dall’Italia non è il coprifuoco» ma «il rispetto delle garanzie e dei diritti fondamentali». «Non si tratta di tatticismo», in ossequio alla prudenza raccomandata da Renzi, spiega in questa intervista, ma di una scelta precisa, diversa dal «presunto pragmatismo» imboccato da altri Paesi, «destinato al fallimento».
Signor ministro, la missione italiana in Libia significa che siamo in guerra? In queste ore c’è chi denuncia uno strappo alle regole in nome dell’emergenza, sia per la mancanza di un preliminare passaggio parlamentare sia per aver previsto che la missione sarà diretta dall’Aise, il servizio segreto della sicurezza interna che risponde al premier e non alla Difesa… Non siamo un Paese in guerra. Per la guerra ci sono le procedure previste dalla Costituzione. Il decreto presidenziale sulla missione in Libia non configura un’azione militare e i poteri del premier sono quelli contenuti in una legge approvata dal Parlamento. Quella prevista è un’attività di sicurezza e prevenzione. Un nostro impegno diretto è possibile solo nel quadro di una decisione della comunità internazionale. Peraltro, dobbiamo sapere di essere entrati in una fase storica in cui le categorie di guerra e di pace sono più sfumate. Abbiamo una dimensione che unisce il fenomeno della guerra all’attività di terrorismo internazionale e questo fa sì che l’attività di intelligence sia sempre più legata al monitoraggio di ciò che avviene sui teatri di guerra veri e propri.
L’incipit dell’articolo 2 del decreto presidenziale fa riferimento a «situazioni di crisi e di emergenza che richiedono l’attuazione di provvedimenti eccezionali e urgenti». È la premessa anche per eventuali leggi speciali contro il terrorismo, visto il contemporaneo innalzamento dell’allerta? No. L’Italia ha agito in modo tempestivo, ben prima dei fatti di Parigi, con un decreto che ha superato i punti di debolezza del sistema, ampliando i poteri della Procura antiterrorismo, individuando alcuni reati funzionali alla repressione del terrorismo di matrice jihadista ed estendendo alcune attribuzioni dell’intelligence. Credo che le contromisure giurisdizionali siano già state prese tutte. Semmai, si tratta di portare a compimento alcune azioni di carattere amministrativo, come lo scambio di informazioni, e di monitorare il fenomeno della radicalizzazione in alcuni contesti, a partire dal carcere. Dico subito, però, che una normativa assunta solo in una dimensione nazionale avrà il respiro corto.
I migranti fuggono da Paesi che negano i diritti fondamentali ma si ritrovano in un’Europa che nega anch’essa quei diritti. Sullo sfondo c’è anche la paura del terrorismo… Credo si debba riconoscere che l’Italia è sulla strada giusta, e ci si è messa prima di altri Paesi, perché tutte le altre strade sono percorse sulla base del presunto pragmatismo ma sono destinate al fallimento. L’idea dei muri mette in moto meccanismi destabilizzanti anche per i Paesi che pensano di essersi messi al riparo. La vera domanda è: quando arriveremo a una politica comune? Tutte le altre strade si sono rivelate e si stanno rivelando fallimentari. Ci sono Paesi che rischiano di far esplodere di nuovo un’area stabilizzata da pochi anni come quella dei Balcani.
La Francia, dopo gli attentati di Parigi, ha scelto la via di un socialismo pragmatico, appunto, più attento alla sicurezza interna che alla tutela dei diritti. «Ne faisons pas de juridisme» ha detto il primo ministro al Parlamento, riducendo a legalismo il rispetto delle regole giuridiche, contrapponendole alle esigenze di sicurezza dei cittadini. Possibile che le due cose siano in antitesi?
Bisogna trovarsi nella situazione che hanno vissuto i francesi per rispondere… anche se non mi convince molto la distinzione, penso utilizzata per fare i conti con un’opinione pubblica comprensibilmente terrorizzata.
Quindi, se noi fossimo attaccati, sarebbe tutta un’altra storia? Non dico questo, anche perché noi non siamo in una situazione di tranquillità. Dico che dobbiamo rispettare le loro decisioni, augurandoci di non trovarci nella stessa situazione di fortissima tensione e lacerazione. Dalla nostra abbiamo il passaggio storico della lotta al terrorismo interno e quella guerra è stata vinta restando nel perimetro della Costituzione. Ed anzi, continuando a promuovere la sua attuazione legislativa.
«Resistere a volte vuol dire restare, altre volte andar via. Per dare l’ultima parola all’etica e al diritto» ha detto l’ex guardasigilli Christiane Taubira, dimettendosi in polemica con le scelte di Holland, tra cui il tentativo di rendere permanenti le misure eccezionali. Taubira era una che aveva le idee ben chiare sui diritti. Lei farebbe lo stesso? Non lo so. Non credo sia semplice né opportuno giudicare le vicende interne di un Paese con cui cooperiamo nel contrasto al terrorismo. Detto questo, ho apprezzato molto il lavoro della Taubira e in questi due anni mi è capitato di trovarmi spesso su posizioni comuni in contrasto con quelle influenzate da populismo e xenofobia entrate anche nel dibattito dell’Unione europea.
Il filoso Ronald Dworkin diceva che il rispetto dei diritti umani non è un impiccio di cui liberarsi per placare la paura e riscuotere consensi ma è «la briscola», la carta vincente in ogni partita, anche quella sulla sicurezza. Il governo, tutto, si rispecchia, secondo lei, in questa metafora? Il governo ha sensibilità diverse. Parlare di un’adesione collettiva a una visione filosofica è un azzardo. Però questa è la strada seguita fin qui. E l’abbiamo seguita fino in fondo.
Non è tatticismo, in ossequio alla prudenza raccomandata da Renzi?
Non credo che la posizione di Renzi si limiti alla prudenza. La sua è stata l’unica voce fuori dal coro quando ha detto, dopo Parigi, «Per ogni euro speso per la sicurezza, un euro va speso per la cultura». Il messaggio è chiaro: non solo repressione ma svuotamento dei bacini in cui si nutre l’odio. E così ci siamo mossi e in parallelo ha preso vigore una stagione di rafforzamento delle garanzie. Mi piace contrapporre la nostra azione, che tiene insieme sicurezza, rafforzamento delle garanzie e estensione dei diritti, a quella di altri Paesi: noi abbiamo chiuso gli Opg, abbiamo fatto la riforma della custodia cautelare, stiamo approvando quella sulle unioni civili ed è in atto la discussione sulla tortura.
È una strada impopolare. Lega docet… Non lo so. Ma so che rinunciare a una cifra di libertà significa rinunciare alla libertà di tutti e che non bisogna piegarsi a una destra che ha imposto per anni un pensiero diverso. Non si tratta di essere impopolari o provocatori ma di rovesciare un’impostazione, perché può essere più conveniente per tutti. Se il prezzo per una presunta sicurezza totale è avere città come quelle che controlla l’Isis, abbiamo regalato la vittoria all’Isis. Non credo che gli italiani apprezzerebbero una vita regolata dal coprifuoco.
La tenuta di questa identità garantista del governo si misura anche su altri fronti, per esempio sul carcere. Gli Stati generali da lei indetti sono una grande sfida culturale per ridurre lo scarto tra diritti fondamentali e senso comune. Sempre che la montagna non partorisca un topolino… Intanto arriviamo a questo grande appuntamento avendo fatto una serie di cose che lo giustificano, e cioè, progressi significativi sul sovraffollamento e sviluppo altrettanto significativo delle misure alternative. Ma, anche qui, non si tratta di sfidare l’impopolarità bensì di dire la verità, perché quando si parla di carcere non si va oltre gli slogan. Ricordo sempre che spendiamo 3 miliardi per il carcere ma abbiamo il più alto tasso di recidiva d’Europa. Il tema non è “carcere sì, carcere no” ma “quale carcere”, qual è la pena che fa uscire da un circuito nocivo per la tutela della sicurezza collettiva. È bene che si sappia che se le carceri sono un’università del crimine, il contribuente paga la formazione dei criminali.
Prima lei accennava alla radicalizzazione dei terroristi in alcuni contesti, a cominciare dal carcere. Il carcere dei diritti avrebbe gli anticorpi contro la radicalizzazione? E quali? Il binomio è semplice: scrupoloso rispetto delle garanzie previste dalla legge, il che necessita di un costante controllo, e monitoraggio sui fenomeni. Sono due elementi da tenere insieme. Nessun eccezionalismo ma un controllo più stringente soprattutto nei bacini dove si ritiene sia più facile la radicalizzazione. Che non sono solo quelli che hanno matrice nel fondamentalismo religioso.
Ministro, due domane fuori tema imposte da un’altra attualità: il nuovo falso in bilancio ha spaccato la Cassazione e andrà alle sezioni unite dopo appena sette mesi di vita. Colpa dei giudici o della qualità scadente della riforma? Premesso che risolvere contrasti è il mestiere della Cassazione, la stagione delle norme nitide è finita. Le norme penali sono sempre più spesso frutto di mediazioni estenuanti, in particolar modo in un governo in cui le posizioni di partenza sono molto distanti. Non bisogna quindi stupirsi della ricerca di un punto di equilibrio, anche se non privo di difetti, ma, semmai, di avercela fatta.
Così, però, si scarica costantemente sui giudici. Credo sia un dato strutturale delle società post moderne, caratterizzate dalla frammentazione politica e, quindi, dall’esigenza di mediazioni. Questo lascia alle nostre spalle le grandi codificazioni e scarica sui giudici un ruolo sempre più importante, per cui il tema del “diritto vivente” diventa cruciale. Perciò condivido il grido d’allarme lanciato dal primo presidente della Cassazione Gianni Canzio.
Il 15 e 16 marzo lei presiederà a Parigi la Conferenza Ocse sulla corruzione. Ci andrà con una serie di misure adottate ma senza la riforma della prescrizione, in passato considerata dall’Ocse una priorità. Come si giustificherà? Vado a Parigi con una posizione solida perché, dopo gli inasprimenti di pena introdotti dalla Severino e poi da noi, credo che in Italia sia diventato improbabile far prescrivere i reati di prescrizione.
Quindi la riforma è archiviata? No, ma rispetto alla corruzione si può dire che il numero di processi prescritti dopo i nuovi aumenti tendono allo zero. Donatella Stasio