MAGISTRATI Magistrati di toga e di governo: quando il giudice entra in politica ma non si dimette (espresso.it)

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Magistrati di toga e di governo: quando il giudice entra in politica ma non si dimette
Collocamenti in aspettativa che durano decenni. Dimissioni che restano un miraggio. Promozioni assicurate anche senza svolgere attività giudiziaria
L’affondo del presidente dell’Anm, Piercamillo Davigo, sui politici che “non hanno smesso di rubare ma di vergognarsi”. I giudizi non proprio lusinghieri sul governo del giudice Piergiorgio Morosini, ora al Csm. Le polemiche sul diritto di schierarsi sul referendum costituzionale. E come risposta, le accuse di invasioni di campo, interventi a gamba tesa, “barbarie giudiziarie”. Se i venti di tempesta ricordano i tempi dell’assalto alle presunte toghe politicizzate, già cavallo di battaglia di Silvio Berlusconi, nessuno pare ricordarsi del caso opposto: i “politici togati”, ovvero tutti quegli esponenti di partito che, pur non avendo intenzione di rimettere piede nelle aule di giustizia da dove provengono, sono in aspettativa da tempo immemore. Così da risultare a tutti gli effetti in servizio e maturare pure l’anzianità per la progressione di carriera. Come? In base a una semplice relazione della Camera di appartenenza relativa all’attività parlamentare svolta. E quando l’avventura finisce, nessun problema: tornano nei tribunali senza colpo ferire, e pazienza per l’immagine di obiettività e imparzialità che dovrebbe accompagnarli. Ci vorrebbero dei paletti, ha ammonito a suo tempo Giorgio Napolitano e nei mesi scorsi anche il Csm. Solo che la legge, approvata all’unanimità dal Senato due anni fa, da dicembre è ferma a Montecitorio in commissione Giustizia. Presieduta, nemmeno a farlo apposta, da un magistrato fuori ruolo dal 1999 e in aspettativa dal 2008: Donatella Ferranti (Pd).
PRIMATI ROSA
In Parlamento siedono nove toghe (erano 17 la scorsa legislatura). Sei sono formalmente in attività: oltre alla Ferranti, i senatori democratici Felice Casson, Anna Finocchiaro, Doris Lo Moro e il deputato montiano Stefano Dambruoso. Fra gli ex, il presidente del Senato Piero Grasso, che andò in prepensionamento quando si candidò col Pd, e come lui due forzisti: Nitto Palma, che si dimise nel 2011 a seguito della nomina a Guardasigilli (dieci anni dopo l’ingresso in politica) e l’ex sottosegretario Giacomo Caliendo. Caso a parte il verdiniano Ignazio Abrignani, in passato giudice tributario ma di fatto avvocato civilista.
Emblematico il caso della Finocchiaro, magistrato per un lustro appena: pretore nell’ennese dal 1982 al 1985 (dove escluse dalle comunali il Psi, che aveva depositato la lista con 20 minuti di ritardo) più un paio d’anni da pm a Catania. Nel 1987, quando la Germania è ancora divisa e Maradona fa sognare Napoli, l’elezione alla Camera col Pci e l’aspettativa. Che dura tuttora: lo scorso 29 aprile, certifica il Csm, dalla prima delibera di autorizzazione erano trascorsi 28 anni, 3 mesi e 20 giorni. Fra le 823 toghe in servizio collocate fuori ruolo almeno una volta, ha ricostruito l’Espresso, nessuno può vantare un tale record. In questi tre decenni la Finocchiaro è stata ministro, capogruppo, candidata governatrice in Sicilia, due volte presidente di commissione, il suo nome è girato per il Quirinale ma di dimissioni nemmeno a parlarne. La lontananza dalle aule di giustizia non le ha comunque impedito di ottenere nel tempo sette valutazioni di professionalità, il massimo, e di veder confermati nel 2011 dal Consiglio giudiziario della Corte di appello di Roma “i giudizi positivi conseguiti nel corso di tutta la sua carriera”. Benché trascorsa in Parlamento anziché in tribunale. In questo modo, coi contributi versati, oltre a un vitalizio superiore a 5mila euro l’esponente Pd riscuoterà anche una cospicua pensione da magistrato.
Porte girevoli invece per Doris Lo Moro. Dal 1988 ha esercitato una decina d’anni appena, peraltro a intermittenza: un quinquennio da giudice a Lamezia Terme, qualche mese a Roma alla sezione Lavoro, poi otto anni da sindaco (proprio a Lamezia). A seguire, ancora un po’ di qua e un po’ di là: di nuovo giudice nella capitale per altri quattro anni e dal 2005 la politica a tempo pieno, come consigliere regionale Ds e parlamentare Pd. Adesso, dopo due legislature, la senatrice è pronta per ricominciare il giro al Consiglio di Stato, dove Matteo Renzi vorrebbe nominarla.
Vita a metà per la Ferranti: 17 anni con la toga, altrettanti fuori ruolo. Prima al Csm ai tempi di Rognoni e Mancino (dove diventa segretario generale) e poi, grazie anche a questi sponsor di peso, il salto in politica nel 2008: con una blindatura a capolista nel collegio Lazio 2. Se la Ferranti ha in serbo di tornare in magistratura, magari con l’ambizione di finire in Cassazione (si dice che per questo faccia grandi resistenze sul ddl che disciplina il rientro in carriera), chi non ci pensa affatto è Felice Casson. Il giudice istruttore del processo Gladio dopo un quarto di secolo da inquirente si è dato alla politica nel 2005: da allora due candidature a sindaco di Venezia, senza successo, e tre legislature. Oggi, a 63 anni, nella doppia veste di parlamentare e consigliere comunale, aspetta di poter andare in pensione. Alla prima esperienza è invece Dambruoso (Sc), esperto di terrorismo internazionale. Fra incarichi vari all’estero e ministeri la toga l’ha indossata poco ultimamente (dal 2003 solo per un anno, come pm a Milano) ma pure lui nei mesi scorsi ha ottenuto un avanzamento.
DI TOGA E DI GOVERNO
L’emblema dei cortocircuiti che possono prodursi è Cosimo Ferri, sottosegretario in quota Alfano e al tempo stesso leader di Magistratura indipendente, di cui sponsorizzò i candidati via sms alle ultime elezioni per il Csm. Talmente “indifendibile”, come lo definì, che Renzi dopo l’indignazione d’ufficio l’ha lasciato dov’era. Nemmeno questo figlio d’arte (il padre Enrico, ministro Psdi, è stata una toga prestata a tempo indeterminato alla politica) ha sudato particolarmente in tribunale: in tutto una decina d’anni, inframmezzati peraltro da un mandato al Consiglio superiore. Quando nel 2010 torna a fare il giudice a Massa, ha un seguito tale da risultare il più votato di sempre all’Anm ed è pronto per il salto in politica, che arriva grazie alle larghe intese in quota Forza Italia. Malgrado sia finito in pochi anni nelle intercettazioni di Calciopoli, dell’inchiesta Agcom-Annozero e della P3.
Poco male: nel 2014, quando era già sottosegretario, il ministero della Giustizia ne ha certificato “equilibrio, imparzialità, serenità ed autonomia” che a gennaio gli sono valsi un nuovo scatto.
Del resto, ministero che vai, sottosegretario-magistrato che trovi: al Viminale c’è Domenico Manzione, un passato da pm a Lucca, Monza e Alba prima di approdare all’esecutivo con Letta su indicazione di Renzi, di cui è intimo.
A livello locale la musica non cambia, tanto che il Csm ha allo studio un’apposita delibera per stringere sulle incompatibilità con gli incarichi amministrativi. Nel 2009 Caterina Chinnici (figlia di Rocco, il giudice ucciso dalla mafia) ha accantonato la toga a Palermo per entrare nella giunta di centrodestra guidata da Raffaele Lombardo, poi è passata alla guida del dipartimento Giustizia minorile e nel 2014 è volata in Europa col Pd.
Da pm antimafia, senza muoversi da Bari Michele Emiliano è diventato invece sindaco e governatore pugliese. In attesa, vai a sapere, di sfidare il segretario-premier al congresso. La nomina a segretario regionale dem gli è costata però un procedimento disciplinare: fare politica sì, militare a tutti gli effetti in un partito no. Questione di forma. Per quanto impalpabile possa essere il confine. Paolo Fantauzzi

Foto del profilo di Andrea Gentile

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