PREVIDENZA: Una cultura sciale della pena di Glauco Giostra – presidente del comitato scientifico degli Stati generali sull’esecuzione (Il Sole 24 Ore)

IL SOLE 24 ORE

L’articolo è uno stralcio dell’intervento che Glauco Giostra ha tenuto agli Stati generali sull’esecuzione penale

Una cultura sciale della pena

di Glauco Giostra – presidente del comitato scientifico degli Stati generali sull’esecuzione

La Costituzione parla significativamente non già di pena, bensì di pene, facendo intendere come la tensione rieducativa debba contrassegnare non soltanto il momento espiativo, ma anche la scelta della pena più consona al fatto e al reo.
Si dovrebbe ricorrere alla sanzione del carcere, strutturalmente la meno idonea alla risocializzazione, solo quando ogni altra si appalesi inadeguata. E ciò dovrebbe comportare un deciso spostamento del baricentro della risposta sanzionatoria penale, oggi incentrata sulla pena detentiva, verso sanzioni di comunità, meno onerose per lo Stato e meno desocializzanti per il condannato, chiamato ad adoperarsi nella e per la collettività. Sempreché non si possa, nei casi in cui ne ricorrano i presupposti giuridici e le condizioni soggettive, intraprendere percorsi di giustizia riparativa, che rappresenta un paradigma di giustizia culturalmente e metodologicamente autonomo, in grado di sostituire al grossolano rammendo con cui la pena ricuce lo strappo del tessuto sociale provocato dal reato una paziente e delicata opera di ritessitura dei fili relazionali tra il reo, la vittima e la società.
Quando il ricorso al carcere è inevitabile, l’attenzione non può limitarsi all’espiazione intramuraria della pena: la sua stessa funzione costituzionale, infatti, postula la possibilità di un graduale reinserimento del condannato nella collettività, e a questa sua “convalescenza sociale” vanno dedicati altrettanto impegno e altrettante risorse, risultando essa quasi sempre decisiva per un effettivo recupero del soggetto alle regole della comunità e un conseguente, drastico abbattimento degli indici di recidiva.
Precondizione indefettibile di ogni istanza rieducativa è che la pena non consista mai, qualunque essa sia e per qualunque reato venga inflitta, «in trattamenti contrari al senso di umanità» Ogni violazione dei diritti fondamentali del condannato, che non derivi dalle restrizioni funzionali alla privazione della libertà, ne offende la dignità e preclude la possibilità che la pena svolga la sua funzione costituzionale, essendo impossibile rieducare alla legalità un soggetto illecitamente umiliato nella sua dignità di uomo. Possono rendersi necessarie limitazioni a diritti ulteriori, oltre a quello alla libertà, in considerazione di speciali esigenze di sicurezza (art. 41 bis ord. penit.), ma anche in tal caso la legittimità di queste restrizioni additive sta e cade con la loro stretta indispensabilità allo scopo.
Il principio rieducativo non può mai riguardare un uomo considerato come mezzo di una strategia politica (sia essa di sicurezza sociale, di governo dell’immigrazione, di contrasto al terrorismo). Neppure se l’obbiettivo di tale strategia fosse la sua rieducazione: la “rieducazione d’autorità”, probabilmente un ossimoro anche da un punto di vista pedagogico, lo è di certo da un punto di vista costituzionale. Il condannato va considerato come responsabile artefice della sua riabilitazione sociale.
Ciò comporta che destinatario dell’offerta “trattamentale” sia un soggetto messo effettivamente nella condizione di fare scelte convinte e responsabili. Un soggetto cioè che, consapevole dei propri doveri e dei propri diritti, sappia autogestirsi nel microcosmo sociale del carcere, le cui regole di vita siano le più vicine possibile a quelli del mondo esterno. Si muove apprezzabilmente in questa direzione il regime della c.d. vigilanza dinamica, di cui si auspica una più diffusa e convinta applicazione. Frustra irrimediabilmente qualsiasi finalità rieducativa, invece, un sistema che, per regole, prassi, linguaggi, produca forme di infantilizzazione e di incapacitazione del soggetto.
Il principio rieducativo postula l’offerta di un progetto individualizzato di risocializzazione: il tempo della pena non dovrebbe mai essere una sorta di time out esistenziale, una clessidra senza sabbia, ma un tempo di opportunità per un ritrovamento di sé e di un proprio ruolo sociale. Nessuna situazione soggettiva (immigrato, senza fissa dimora, ecc.) o nessun tipo di reato commesso dovrebbe costituire di per sé esclusione dalle opportunità di recupero sociale. (…)
In sintesi, la Costituzione legittima lo Stato a privare il condannato della libertà, mai della dignità e della speranza. E quel dovere di “tendere” alla rieducazione significa che la rieducazione non possa essere mai né imposta, né certa, né impossibile.
Il Comitato scientifico ha cercato, ampiamente attingendo al prezioso lavoro dei 18 tavoli tematici, di prospettare linee di intervento legislativo, amministrativo, strutturale, organizzativo, formativo per realizzare una esecuzione penale che sia finalmente e pienamente in sintonia con questi principi costituzionali, naturalmente calandoli in una realtà che presenta problematiche inimmaginabili sino a non molto tempo fa. Basti un solo, importante, esempio: le nostre norme sono state concepite per una popolazione penitenziaria sostanzialmente omogenea da un punto di vista linguistico, culturale e religioso. L’attuale “utenza” invece è composta per il 30 percento da stranieri, persone di lingua, di cultura e di religione diverse e “lontane”, e per questo più degli altri esposti alla emarginazione ghettizzante e al rischio di radicalizzazione. La proposta del Comitato di affrontare il problema promuovendo la mediazione culturale e favorendo l’integrazione di tali soggetti nella quotidianità detentiva, peraltro in conformità con le Linee guida dettate dal Consiglio d’Europa, non si pone in contrasto con le esigenze di prevenzione del rischio. Al contrario, apre canali di conoscenza che veicolano informazioni preziose per il controllo dei fenomeni di fanatismo violento. La stessa vigilanza dinamica costituisce, in quest’ottica, un elemento di forza dal punto di vista della capacità di prevenire derive terroristiche; non mortifica, ma esalta il ruolo della Polizia penitenziaria che, opportunamente preparata, può costituire un insostituibile osservatore di prossimità, un prezioso percettore di abitudini, tendenze, evoluzioni comportamentali, atteggiamenti di proselitismo, prevaricazioni o sudditanze psicologiche. Non è la ghettizzazione ma la conoscenza la miglior alleata della sicurezza.
Con tutti gli inevitabili limiti, quello che consegniamo oggi è un disegno di grande respiro e profondamente incisivo, eppure anche congenitamente fragile, se non sarà accompagnato e sostenuto da una diversa cultura sociale della pena. Il libro della riforma sarebbe facilmente scompaginato dalla prima folata allarmistica se non potesse contare sulla robusta rilegatura di un sentire sociale nuovo e sintonico. (…)
Di una cosa siamo certi: la società che offre un’opportunità ed una speranza alle persone che ha giustamente condannato si dà un’opportunità ed una speranza di diventare migliore.(…)

Foto del profilo di Andrea Gentile

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