Lo scontro sui tre mesi di indagine: ma è una norma di civiltà
Una novità contenuta nella riforma della giustizia ha fatto sobbalzare sulla
sedia sia Gratteri, procuratore capo di Reggio Calabria, sia Sabelli, presidente della Associazione nazionale magistrati: si tratta di una previsione secondo
la quale il pubblico ministero, dopo la fine delle indagini, avrebbe a disposizione soltanto tre mesi per decidere se chiedere l`archiviazione o il rinvio a giudizio dell`indagato. E` una regola di comune buon senso
che serve a ridurre i tempi del processo, evitando stasi tanto lunghe quanto, a volte, immotivate. Ma allora perché i due magistrati si son tanto rammaricati della probabile approvazione di tale limite temporale, definendo la norma che lo prevede addirittura pericolosa o a favore per la mafia?
Evidentemente, perché una tale riduzione vincolante dei tempi mette in riga, per dir così, il pubblico ministero, obbligandolo a stare all`interno di binari di durata predeterminati, senza poter fare perciò del tempo ciò che più gli aggradi. Ecco dunque una buona ragione per limitare i poteri, almeno da questo esiguo versante, della parte pubblica nel processo penale, a proposito della quale ci sarebbe molto da dire.
In proposito, accennando appena ad una problematica che meriterebbe ben altra trattazione, c`è da osservare che paghiamo uno scotto all`hegelismo più
deteriore il quale, innervando i gangli dei sistemi costituzionali continentali (e
restando sconosciuto ai paesi di common law), porta a ritenere che tutto ciò che si presenti come pubblico – contrapposto al privato – per ciò solo sia nel giusto e non possa che essere nel giusto, quasi per virtù di un Dio che, eliminato da un`epoca fortemente secolarizzata, ricompare sotto le forme dello Stato. Così, evidentemente, non è. E non ci vuole un filosofo di professione per capire che anche la parte pubblica deve rispettare dei principi di civiltà giuridica che le preesistono e che appunto la rendono degna di definirsi pubblica altrimenti essa si atteggerebbe come qualunque altra parte privata).
In questa prospettiva, ben altre sarebbero le riforme da approntare allo scopo di arginare quello che ancora rimane lo strapotere del pubblico ministero nel
processo penale. Ne cito soltanto due. Da un primo versante, è risaputo che il
pubblico ministero, dal momento in cui è noto chi sia la persona al quale si possa astrattamente attribuire il reato, deve senza indugio iscriverne il nome
nell`apposito registro e che da quel momento cominciano a decorrere i termini di legge per l`espletamento dell`istruttoria, che non potrà superare i
sei mesi, prorogabili per giustificati motivi per non più di due volte, per un
totale di un anno e mezzo complessivo.
Ebbene, cosa accade nella pratica? Accade che a volte il pubblico ministero
omette o ritarda consapevolmente di registrare il nome dell`indagato allo
scopo di evitare la decorrenza del termine per le indagini, sapendo comunque che esse saranno salve e pienamente utilizzabili.
Infatti, per la Cassazione – in modo uniforme – anche se il pubblico ministero nell`omettere o nel ritardare quella registrazione fosse incorso in un illecito disciplinare o addirittura nella commissione di un reato, egualmente le
indagini saranno utilizzabili: dal che si ricava l`interessante insegnamento,
elargito graziosamente dalla nostra Cassazione, per il quale non importa la
genesi di un comportamento, in quanto anche comportamenti illeciti ( in sede
disciplinare o perfino penale) possono produrre atti leciti e pienamente utilizzabili.
E su come un atto illecito possa – nel processo penale – partorirne di leciti ci
sarebbe da meditare per generazioni, dubitandosi molto che si possa giungere
a legittimare un simile sofisma, se non ricorrendo alla ragion di Stato, buona per chiudere la bocca ad ogni pretesa della ragione critica.
Ma, come ebbe a scrivere Karl Kraus, quando si comincia ad invocare la
ragion di Stato, si dà inizio alla rovina degli uomini. Il fatto è che siamo in presenza di un gioco di prestigio vero e proprio: dal momento che le indagini
possono durare soltanto per un anno e mezzo, è sufficiente postergare il termine iniziale – ritardando la registrazione del nome dell`indagato – per farle durare anche il doppio o il triplo. Facile, no?
Da un secondo versante, per quanto sembri strano, anche se in pubblica
udienza il pubblico ministero abbia chiesto l`assoluzione dell`imputato
benché ciò avvenga raramente), la sentenza di assoluzione che ne assecondi la volontà potrà egualmente essere appellata dall`ufficio della Procura, come se nulla fosse accaduto. Insomma, le regole che governano il funzionamento processuale della Procura sembrano scritte da alienati mentali, perché ciò che la Procura dice oggi per bocca del pubblico ministero che la rappresenta in udienza, non varrà più domani mattina per bocca di un altro che stava fuori dell`udienza. Ne viene che il parere del pubblico ministero d`udienza pur essendo efficiente, cioè producendo effetti nel processo, potrà essere tranquillamente negato l`indomani dallo stesso ufficio al quale egli appartiene.
Ne viene ovviamente un senso di straniamento che assume un sapore surreale, con l`effetto di spiazzare la difesa che a volte non sa come regolarsi
in proposito, danneggiando in modo irrimediabile la persona assistita.
Potremmo continuare, ma sarebbe cosa lunga e forse noiosa. Per ora ci limitiamo a chiarire al governo che la nuova norma è cosa buona, ma è soltanto una goccia di verità in un oceano di menzogne. Vincenzo Vitale