LA REPUBBLICA – Affari e Finanza
Il commercialista non basta più Pmi alla ricerca di consulenza
I PROFESSIONISTI DELLA CONTABILITÀ SONO I PRIMI A ENTRARE IN CONTATTO CON LE NECESSITÀ DELLE MICRO IMPRESE, MA SOLO ALCUNI SONO PREPARATI A DARE I GIUSTI CONSIGLI PER FARLE CRESCERE, ESPANDERSI ALL’ESTERO E AMMODERNARSI
Roma. Abc, Allevatori bufalini casertani. La cooperativa esporta mozzarella in tutto il mondo. Ha cominciato dieci anni fa, ha una fitta rete di rivenditori, spedizionieri, contatti, e guai se non avesse affrontato la sfida allora. Oggi che il mercato dei latticini è inflazionato, il suo è un marchio al top. Per le piccole e medie aziende italiane, ossatura della nostra economia in difficoltà, adeguarsi è un obbligo per sfidare piazze estere, marketing digitale, vendite on line, industria 4.0. Abc è un caso di successo ma non sarebbe avvenuto se nessuno l’avesse aiutata e spinta con una consulenza ad hoc. La consulenza aziendale è uno snodo decisivo per questi obiettivi. Ma chi può aiutare una piccola o piccolissima impresa? Non certo le grandi società di consulenza, che hanno costi proibitivi. L’unico che potrebbe farlo è il commercialista di fiducia, primo interlocutore per l’imprenditore nei rapporti col fisco, i bilanci, le dichiarazioni dei redditi o i ricorsi alla commissione tributaria anche solo per una ritenuta non versata. Ma i commercialisti sono in grado di adempiere a questo compito? O devono anche loro aggiornarsi e imparare? Purtroppo solo alcuni, troppo pochi ancora, sanno di investimenti in tecnologie, di nuove regole frutto di leggi recenti, di sistemi di controllo di gestione, di programmazione finanziaria. E sono le attività più richieste. Non ne fanno mistero i rappresentanti degli stessi dei commercia-listi: «Storicamente i nostri associati sono orientati verso l’assistenza amministrativa e fiscale per le imprese – spiega Ugo Pollice, che segue il settore consulenza per il Consiglio nazionale. – In questo momento stiamo lavorando sulle scuole di alta formazione, 14 in tutta Italia, con i master di consulenza aziendale. Alcuni colleghi sono già pronti, sanno cosa fare, assistono i clienti che arrivano dall’estero, o accompagnano i clienti sui mercati stranieri dove ora ci sono maggiori possibilità di sviluppo. Sono però una minoranza rispetto a quelli che svolgono un’attività tradizionale». In una platea di 116 mila iscritti e 144 ordini territoriali, i giovani sono i più avvantaggiati. Ci sono corsi di 200 ore a cui partecipano esperti, rappresentanti dell’Agenzia delle entrate, di Confindustria, magistrati. Per la fascia che va dai 55 ai 70 anni, la conversione è più problematica e comporta sacrifici. Benefici fiscali, investimenti in tecnologie, le start up, provvedimenti voluti per rilanciare il business, contratti di rete al posto del classico 730. Le aziende non sono preparate e tanti commercialisti nemmeno. «Stiamo studiando – assicura Pollice – quando avremo lasciato la vecchia burocrazia per entrare nel nuovo, tutto girerà meglio». È come partire da zero. Per aiutare le pmi a sfidare i mercati esteri, Giovanni Parente ha curato per il consiglio nazionale dei commercia-listi un roadshow in 11 città d’Italia e accordi con Sace, Simest, le agenzie che assicurano il credito, il ministero dello Sviluppo e l’Iila, l’Istituto italo latino americano. «Andare all’estero – osserva Parente – vuol dire conoscere il target dei paesi, valutare la capacità di assorbimento del prodotto, la sicurezza dei pagamenti. Ogni tappa del road show serve a informare la base su cosa fanno tutte queste agenzie e quali sono gli strumenti a disposizione. Professionisti che già si occupano di internazionalizzazione ci sono, ma pochi, noi vogliamo ampliare questa platea». Maurizio Marinella, il re della cravatta napoletana, per esempio è intervenuto e ha raccontato del suo mercato estero molto fiorente e di come riesce ad esportare in tutto il mondo. Le più importanti società di consulenza lavorano soprattutto per aziende di grandi dimensioni, ma senza trascurare le piccole e medie. «Per crescere e non in maniera episodica – sottolinea Michele Parisatto, di Kpmg – la ricetta non è molto diversa tra imprese grandi e medio piccole. Nella riflessione strategica, i principi guida sono gli stessi: se lo fanno le multinazionali, a maggior ragione è imprescindibile per un’impresa artigiana, per capire in che mercato si trova, le sue evoluzioni, l’inventario dei punti di forza e di debolezza. Utilizzare tecniche manageriali più spinte dà risultati migliori». In Italia, però, il settore della consulenza è sottovalutato. «Gli spazi per crescere ci sono –-. Come al solito il problema è fare incontrare domanda e offerta, sensibilizzare gli imprenditori, per far fare scelte più puntuali all’azienda. E affrontare le sfide sul piano tecnologico con la dovuta apertura mentale. L’uomo tutto solo non va da nessuna parte – continua Parisatto – l’ideale è riunire consulenti, banca, università, tecnici: crederci tutti». Le dimensioni ridotte penalizzano le aziende, tante con fatturati da appena un milione di euro. Su questo batte anche Domenico Posca, commercialista: «Se ho un fatturato da un milione di euro come potrò mai pensare di vendere in Cina o in Australia? Ma se mi metto insieme ad altri venti produttori della mia stessa area per investire insieme su un macchinario, sarà diverso». A volte non si fa il passo all’estero per carenza di risorse umane. «C’è chi ha paura di spostarsi perché non ha nessuno che presidi l’azienda in Italia». Stesso discorso per gli studi professionali: «Purtroppo è il nostro vulnus, abbiamo 89 mila studi, ognuno di dimensione medio piccola, titolare e segretaria. La mia idea è di aggregare, cioè di ridurre il numero delle strutture a 6/7 mila dove lavoreranno 10 o 12 colleghi, molto specializzati». Aggregarsi e fare rete. «Uno dei temi ora fondamentali per chiunque, ma più per le piccole e medie imprese – ragiona Davide Di Domenico, di Boston consulting group – , è capire quale sarà il modello di business che posso utilizzare. Il mondo di oggi funziona per ecosistemi, non vedo il demiurgo. L’abilità dell’imprenditore è far funzionare macchinari con algoritmi, servizi e piattaforme che collaborano, per gestire tutto questo. Ed essere in grado di parlare tutti lo stesso linguaggio”. Più di tutti il linguaggio della fabbrica digitale, industry 4.0, è trasversale, cioè passa per ogni diverso settore della produzione. «La tecnologia è una grande opportunità, perché può connettere le aziende semiartigianali e il mondo industriale – spiega Angelo D’Imporzano, senior managing director di Accenture, società che accompagna le aziende nel percorso di innovazione -. Nel mondo della moda, ad esempio, la digitalizzazione di molte produzioni fatte da terzisti con attività semimanuali, permette la migliore organizzazione in questa filiera e di collegare questo mondo con il mercato globale in maniera diretta. Si può applicare alla piccola azienda, ma soprattutto bisogna ridare valore ai distretti. Sicuramente è importante il ruolo che possono giocare le istituzioni, ma ci vuole anche una realtà che faccia da catalizzatore, perché l’evoluzione delle tecnologie è molto veloce e avere come aggregatore un’azienda che la segue perché è nel suo dna, facilita la diffusione di competenze digitali, e la connessione globale dei distretti». Patrizia Capua