LA REPUBBLICA – Affari e Finanza
Il Jobs Act dei consulenti del lavoro
“Il nostro business sarà più diversificato”
Roma. Crescerà il business dei consulenti del lavoro grazie al Jobs Act. In realtà, da quando esiste questa professione, ovvero da ben 50 anni (la legge che istituisce l’Albo professionale è la 1081 del 1964), l’attività del consulente del lavoro si è molto diversificata, come ammette Marina Calderone, Presidente del Consiglio nazionale dei consulenti del lavoro: “Il nostro lavoro è sempre più vario, e se un 50% del reddito viene dall’assistenza alle imprese per l’attuazione degli adempimenti lavoristici, un altro 50% viene da nuove funzioni, che in sintesi possiamo definire consulenziali”. Un primo passo verso la diversificazione avvenne nel 1998, con l’abilitazione dei consulenti del lavoro a trasmettere le dichiarazioni fiscali, circostanza che pose, almeno in parte, questi professionisti in concorrenza con i commercialisti. Un’attività ormai non secondaria, se si considera che ogni anno vengono inviati dagli studi dei consulenti del lavoro 3,5 milioni di modelli Unico Persone fisiche, 700mila Unico società, e 850mila 730. Un secondo passo in avanti fu fatto con la legge Biagi del 2003, che contiene una norma che consente ai consulenti del lavoro, tramite una Commissione creata presso l’Ordine provinciale, di certificare la correttezza dei contratti di lavoro. Questo compito è stato ribadito con la riforma della legge 183/2014, nota come Jobs Act. Per esempio, con l’art. 2, comma 3, del Decreto legislativo 81/2015, si prevede che i datori di lavoro possano richiedere alle Commissioni di certificazione, presenti anche presso gli Ordini provinciali dei consulenti del lavoro, di certificare che un rapporto di lavoro impostato come collaborazione, è veramente tale, ossia che non presenta profili che lo possano rendere assimilabile al lavoro dipendente. Nel 2010, con la legge 183, nota come “Collegato lavoro”, fu attribuito alle Commissioni di certificazione anche il compito della conciliazione nelle cause lavoristiche, con la finalità di alleggerire il carico dei Tribunali del lavoro. Ecco che il consulente del lavoro, come membro della Commissione di certificazione e conciliazione istituita presso gli Ordini provinciali, diventa anche una sorta di giudice, sostituendosi ad esso nel tentativo di conciliazione. Anche in questo caso il ruolo è stato ribadito da un decreto attuativo della recente riforma del mercato del lavoro. Infatti, l’art. 6 del D.Lgs. 23/2015, prevede, per esempio, che in caso di licenziamento di lavoratori assunti dopo il 7 marzo 2015, ovvero con la formula delle tutele crescenti, il consulente del lavoro può costituire, tramite la Commissione istituita presso l’Ordine, il soggetto che favorisce la conciliazione. L’ultima tappa dell’evoluzione della professione ha avuto luogo con la legge Jobs Act. Per effetto di un decreto legislativo attuativo della riforma (81/2015), il consulente del lavoro può assumere in determinate circostanze un ruolo simile a quello dell’avvocato. Infatti, il consulente del lavoro può assistere non solo i datori di lavoro, loro clienti tipici, ma anche i lavoratori, nel procedimento di certificazione del cosiddetto “patto di demansionamento”, previsto dall’art. 3 del D.Lgs. 81/2015 (che riscrive l’art. 2103 del codice civile). Questo patto serve a regolamentare l’abbassamento della mansione quando ciò è necessario per conservare il posto di lavoro, o anche per migliorare le condizioni di vita del lavoratore, oppure per acquisire una diversa professionalità utile al datore di lavoro. Stessa funzione di difesa dei dipendenti può essere svolta dal consulente del lavoro sia per la verifica dei requisiti di una collaborazione (art. 2, comma 3, D.Lgs. 81/2015), sia per definire la clausola elastica del contratto part time, che permette al datore di lavoro di modificare l’orario del dipendente (art. 6, comma 6, D.Lgs 81/2015). Insomma, i circa 26mila consulenti del lavoro oggi esistenti, che con 100mila dipendenti, amministrano 7 milioni di addetti alle dipendenze di 1 milione di aziende, si occupano oggi non solo di comunicazioni all’Inps (per i contributi previdenziali), all’Inail (per quelli assicurativi), e ai Portali regionali del lavoro (per le info sui contratti), ma anche di conciliazione o di consulenza di parte, o tecnica del giudice, in oltre 100mila vertenze di lavoro ogni anno. Ma la multidisciplinarità di questa figura professionale non finisce qui: “Nelle piccole imprese è spesso il consulente del lavoro che cura la gestione delle risorse umane, ossia la selezione, l’assunzione e la scelta del personale – dichiara Calderone – mentre nelle medie imprese gli capita di affiancare la direzione del personale”. Ma quanto guadagna un consulente del lavoro, facendo tutte queste attività? Secondo i dati dell’Enpacl, la Cassa previdenziale dei consulenti, il fatturato medio annuo nel 2015 era pari a 86mila euro, ma dedotte le spese, restavano come reddito di lavoro, al lordo dell’Irpef, poco più di 37mila euro. E’ questo il dato che devono conoscere i giovani che a settembre si accingono a superare l’esame di stato.