IL GIORNALE D’ITALIA
Riforma processi e tempi della giustizia: per Anm non è colpa delle risorse scarse
A ROMA UN CONFRONTO CON IL PRESIDENTE DAVIGO, IL MINISTRO ORLANDO E LEGNINI DEL CSM
Autonomia e Indipendenza hanno discusso, al congresso di Roma (alla presenza tra gli altri del Ministro Andrea Orlando; del vice presidente del CSM, Giovanni Legnini e del già Vice Giuseppe Vietti) sul tema de “I valori della Magistratura e della Giustizia e le possibili prospettive di riforme efficaci e condivise”. Fermi nel caposaldo per il quale, oggi più che mai, è necessario essere magistrati indipendenti e liberi da condizionamenti e da soggezioni, per poter manifestare nella cultura della giurisdizione l’indipendenza della magistratura a garanzia dei diritti e delle libertà fondamentali di tutti i cittadini italiani, Davigo, con i dati alla mano del confronto con gli altri Paesi europei, smonta la falsa credenza che il lento e mal funzionamento della giustizia italiana sia attribuibile a scarse risorse: “L’Italia spende quanto la Gran Bretagna che ogni anno celebra però circa 330.000 processi penali contro i 3 milioni e 400 mila del nostro Paese”.
Un rapporto di uno a dieci che evidenzia una vera anomalia rappresentata secondo il Presidente -” da una domanda patologica di giustizia, penale e civile, non attribuibile a carenza di produttività degli apparati giudiziari ma dall’agire e resistere in giudizio sapendo di avere torto”. Il capo di Anm propone come possibile soluzione l’introduzione di tassi di interesse molto alti e l’attribuzione dei costi sostenuti dallo Stato a chi ha torto.
L’Italia, oltre ad avere un arretrato di circa 9 milioni di processi, di cui più della metà sono di natura civile, ha visto crescere a dismisura i tempi medi di definizione di una causa in quasi 8 anni per il civile e 5 per il penale. Serve, ed è inevitabile, una drastica riduzione dei processi sia in primo grado che nelle impugnazioni. “In Italia, soprattutto, nel processo penale – continua Davigo- conviene all’imputato impugnare perché in secondo grado se è lui l’appellante la pena inflitta non può essere aumentata, ma solo confermata o diminuita”. Consapevoli del fatto che il diritto ad appellare, in quanto previsto da convenzioni internazionali, può essere abolito solo rinunciando alla funzione essenziale di legittimità del giudizio di cassazione, l’alternativa dovrebbe essere l’introduzione di rischi di aggravio della pena allargando la “reformatio in pejus” prevista, ad oggi, soltanto nel caso in cui il giudizio di primo grado sia stato impugnato dal Pubblico ministero con appello diretto o incidentale. Per quale ragione – evidenzia sempre Davigo – l’imputato condannato non dovrebbe appellarsi se può rimanere libero fino alla sentenza definitiva e può uscire per decorrenza dei termini in caso di detenzione? E’ evidente che deve essere modificato il sistema di prescrizione dei reati il quale continua a decorrere persino se vi è impugnazione del solo condannato e sfocia pure nel paradosso, tutto italiano, di poter impugnare anche le sentenze di patteggiamento”. Alle critiche e alla possibilità che il governo al Senato ponga la fiducia sul ddl di riforma del processo penale risponde il ministro Orlando: “Vedremo come si sviluppa il dibattito parlamentare, si profilano posizioni diverse. Risponderemo nel merito”. Dalla parte del CSM, Legnini, dopo aver sottolineato come il Consiglio si sia espresso con pareri decisivi, mettendo in evidenza positività e criticità delle riforme del governo e del Parlamento, auspica che “il processo di riforma organica sul penale e sul civile e sulle risoluzioni delle crisi di impresa possa essere approvato al più presto, in quanto contenente innovazioni importanti e positive per il sistema”.
Oltre alla riforma, un’altra nota dolente emersa e conseguente, ma sempre dipendente dalla patologia del sistema italiano dell’uso sperequativo dei contenziosi, è lo status quo dell’Avvocatura nel nostro Paese. Dovrebbe far riflettere, in tal senso, come la Francia, con un centinaio di avvocati abilitati alle giurisdizioni superiori, gestisca in Cassazione, per esempio, circa 8 mila ricorsi a fronte dei 50mila dell’Italia. Un rapporto 1 a 6, e guarda caso, con una quantità di impugnazioni equiparabili al numero degli abilitati dell’albo italiano che vale a dire che a un avvocato transalpino corrispondono 500 colleghi italiani.
Ragion per cui, si spiega come un terzo degli avvocati di tutta l’Unione Europea è italiano e l’organismo unitario dell’Avvocatura chiede, adesso, misure ristrettive di accesso alla professione con il numero chiuso degli iscritti a Giurisprudenza. Giusy Cantone