L’ESPRESSO
Se la sentenza fa legge
Fine vita e biotestamento. Adozioni gay. Coppie etero non sposate. La politica lascia enormi vuoti normativi. E allora ci pensano i giudici
DUE PAPÀ NON VOGLIONO farsi riconoscere. Non vogliono dare scandalo. Vogliono proteggere il loro bambino. Sanno bene che sono in tanti a ritenere inaccettabile la sentenza con cui il tribunale di Roma ha riconosciuto in via definitiva lo scorso dicembre l`adozione del figlio del partner da parte di un omosessuale romano. Un diritto – la “stepchild adoption” – che è stato sancito dalla magistratura ma non ancora dal legislatore. Ed è stato stralciato dalla proposta di legge sulle unioni civili tra persone dello stesso sesso, in queste settimane in discussione alla Camera.
Un colpo di mano da parte delle toghe, quella sentenza? Non sembrerebbe. Tutto è stato fatto senza contraddire le norme esistenti: o meglio in loro assenza. E andando a guardare a ritroso, la decisione del tribunale di Roma è
solo il più recente episodio dí una lunga tradizione post-bellica che vede nei
magistrati i primi interpreti dell`evoluzione della famiglia italiana e i primi
veri “legislatori” delle sue nuove forme. «Il codice è molto lento nel recepire i
mutamenti della società e dei comportamenti delle persone», spiega a “l`Espresso”, nello studio della Consulta a Roma, Francesco Caringella, consigliere di Stato dal 1997 e autore di thriller giudiziari: «I giudici e gli avvocati si trovano ogni giorno davanti a problemi e istanze non ancora codificate e devono trovare soluzioni ai problemi reali delle persone», in
una società in rapida evoluzione che rientra sempre meno frequentemente nella visione classica della famiglia.
Melita Cavallo, il magistrato del Tribunale dei minori che ha applicato la
disciplina che riguarda le adozioni speciali per riconoscere la genitorialità dei
due papà romani, e che per quarant`anni è stata in prima linea nel riconoscere le nuove forme di famiglia, ha così motivato la sua sentenza passata in giudicato: «Bisogna tutelare la continuità affettiva con le figure di riferimento, così come riconosciuto dalla legge nel 2015, di un bambino che riconosce la paternità di entrambi i genitori, è ben inserito a scuola e in famiglia ed è serenamente al corrente delle sue origini». In altre parole, sa benissimo di avere una “madre di pancia”, con cui è regolarmente in contatto, oltre all`amore dei due papà.
QUELL`ADULTERIO DIVERSO PER LUI E LEI
La famiglia come la conosciamo oggi non è quella di ieri. Mai nella storia è cambiata tanto velocemente come nell`ultimo mezzo secolo. Pochi si rendono
oggi conto che fino a qualche anno fa in Italia la discriminazione tra marito e
moglie, tra madre e padre era addirittura sancita dalla legge e considerata “sacrosanta” dalla società. Che sono stati avvocati e giudici, dalla metà degli anni Sessanta – ovvero un decennio prima della riforma del Diritto di famiglia del 1975 – ad avere intrapreso, sentenza dopo sentenza, il cammino della parificazione dello status dei coniugi, applicando l`articolo 3 della Costituzione che vieta le discriminazioni basate sul sesso.
Una delle sentenze che ha fatto storia è quella del 1968 con cui la Corte Costituzionale abolì le leggi del codice penale che definivano reato l`adulterio della donna ma non quello del marito. Lo spunto fu l`ordinanza del 13 ottobre
1965 con cui il Tribunale di Ascoli Piceno denunciò l`illegittimità costituzionale di una discriminazione fondata sul sesso, in quanto, «punendo soltanto la moglie adultera e non il marito che offende il bene della fedeltà coniugale, la legge fa un diverso trattamento fra i coniugi che difficilmente può essere giustificato».
In realtà la Consulta si era espressa sulla stessa questione pochi anni prima
su richiesta di un altro tribunale e aveva ritenuto la legge del Codice penale conforme alla Costituzione. Ma siccome l`interpretazione della legge non è granitica e cambia con i mutamenti del sentito umano, il tribunale di Ascoli Piceno non demorse: nell`emettere sentenza chiese alla Consulta di esprimersi nuovamente, a distanza di meno di un decennio, in nome del diverso «momento storico sociale». Le motivazioni con cui confutava la necessità di tale discriminazione oggi sembrano ovvie, perfino >
banali: «La discriminazione non può trovare giustificazione nel fatto che, dovendo vincere particolari ostacoli fisiologici, la moglie adultera dimostra maggiore carica di criminosità…». Oppure: «Non sembra che, attualmente, la coscienza collettiva annetta all`adulterio della moglie un particolare carattere di gravità, come avveniva nei tempi passati, coerentemente allo stato di soggezione morale, giuridica e materiale in cui era tenuta la donna e non può pertanto sostenersi che esso rappresenti una maggiore offesa al bene della fedeltà coniugale». E ancora: «L`illecito comportamento della moglie rispetto alla liceità dell`identico comportamento del marito pone la prima in condizioni di inferiorità morale e giuridica e ne offende la dignità personale, costringendola a sopportare le infedeltà del marito».
COSÌ NACQUE IL DIRITTO ALLA PRIVACY
Eppure queste affermazioni nel 1968 erano rivoluzionarie. E rivoluzionari
erano i giudici che le espressero. Rivoluzionari gli anni in cui presero forma.
Basti pensare alla celebre sentenza con cui la Cassazione nel 1975 stabilì il diritto alla riservatezza, prendendo spunto dalla causa intentata allora dalla principessa iraniana Soraya Esfandiary Bakhtiari, in esilio in Europa, fotografata in casa propria in compagnia di un uomo. Conformandosi ad una copiosa giurisprudenza di merito, anni luce prima che il diritto alla “privacy” fosse considerato dalla legislazione italiana un diritto fondamentale dell`individuo, l`alta Corte sancì la tutela dell`interesse di ciascuno a che non siano resi noti fatti o avvenimenti di carattere riservato senza il proprio consenso, a prescindere dal fatto che siano o meno disonorevoli.
Riconosciuta la parità tra uomo e donna, nel 1974, furono sempre i giudici
– e non i politici – ad abolire l`obbligo della fedeltà per i coniugi separati sostenendo che la disponibilità fisica di un coniuge nei confronti dell`altro non è fondata sul vincolo matrimoniale (ancora in vigore durante la separazione) ma dal fatto sostanziale della vita comune.
E se quest`ultima diventa il presupposto di un`unità familiare ancora prima che sia sigillata dal vincolo matrimoniale allora anche la cosiddetta “famiglia di fatto” necessita tutela. Per questo motivo è dagli anni Ottanta che la magistratura regola le unioni al di fuori del matrimonio nel vuoto assoluto del Parlamento, che a tutt`oggi è silente sui diritti delle coppie eterosessuali non sposate. Nel 1988 arrivò la sentenza con cui al convivente “more uxorio” fu esteso il diritto di succedere nel contratto di locazione non solo se il compagno conduttore dell`immobile muore ma anche se, in presenza di figli minori, questo tronchi la convivenza e abbandoni l`abitazione, in nome della salvaguardia del diritto inviolabile all`alloggio e dell`interesse primario dei figli. Nel 1994 fu invece sancito il diritto al risarcimento al superstite del danno morale e anche patrimoniale in caso di morte per incidente di un
convivente che in vita gli offriva sostentamento economico.
DOPO ENGLARO, LA LEGGE È QUASI INUTILE
Sono passati vent`anni e il Parlamento non si è ancora espresso. Soltanto ora
discute dell`introduzione di questi ultimi due diritti all`interno del disegno
Cirinnà sulle unioni civili, che però riguarda soltanto le coppie omosessuali.
L`unico diritto garantito dalla magistratura fin dal 1998 a essere stato adottato recentemente dal nostro legislatore con le leggi sull`affido condiviso
(2006) e sulla parificazione dei figli nati dentro o fuori il matrimonio (2012) è stato quello alla casa familiare: indipendentemente da chi sia il titolare del diritto di proprietà, deve essere assegnata al genitore affidatario. «Il nostro sistema ha una logica dirigistica e paternalistica che cozza contro il diritto alla non cura», dice Caringella, prima di affrontare il tema del diritto alla salute: «Tant`è vero che fino agli anni Duemila ancora non era risolto il quesito se il danno alla salute fosse risarcibile indipendentemente dal fatto che avesse riflessi patrimoniali». Caso classico è quello della casalinga, non produttrice di reddito, che si ammala a causa delle esalazioni velenose di una fabbrica vicino alla sua abitazione: fino a vent`anni fa non avrebbe avuto diritto a nessun risarcimento, nemmeno se fosse stata provata la correlazione
tra la malattia e la fabbrica.
Ma con una serie di sentenze progressive la Consulta ha stabilito che la salute
è in sé un bene fondamentale della persona e che la sua lesione deve essere
risarcita indipendentemente dallo status economico di chi è stato lesionato.
Il diritto a decidere della propria salute e della sua tutela rimane comunque
in capo all`individuo che può rifiutare le cure. E lo può fare anche se queste gli salverebbero la vita. All`interno di questa linea interpretativa si colloca il caso di Eluana Englaro, la ragazza di Lecco che rimase in stato vegetativo nel 1992 in seguito ad un incidente d`auto. Sia la Corte d`Appello di Milano nel 1999 che la Cassazione nel 2005 negarono al padre, suo tutore legale, il permesso di staccare la spina nonostante gli amici avessero ripetutamente testimoniato che quella sarebbe stata la volontà della donna se fosse stata in grado di esprimerla. Solo dopo che nel 2007 la Cassazione, con una sentenza che ha la forma di un vero e proprio trattato, permise un nuovo processo, il tribunale di Milano autorizzò la sospensione delle cure. E nel 2009, dopo 17 anni di stato vegetativo, la ragazza ebbe diritto a morire.
Con questa sentenza, in presenza di un vuoto legislativo, i magistrati affermarono due principi oggi indiscussi: nessuna struttura sanitaria può imporre una terapia, nemmeno se l`alternativa alla terapia è morte sicura, e, in assenza di una volontà espressa del malato, occorre ricostruirne la volontà in base al suo sistema di valori. «Quella sentenza ha ormai valore di legge», conclude Caringella.
E forse una legge, quella sul testamento biologico, a questo punto non servirebbe neppure, aggiunge l`avvocato della famiglia Giulia Facchini: «Basterebbe modificare lo statuto dell`amministrazione di sostegno, già esistente, e renderlo un atto automatico che non necessita di notaio». In modo di evitare ai cittadini non solo i costi e i tempi lunghi di un processo ma anche i costi ideologici e i tempi lunghi di un dibattito politico su un problema che per la società e già risolto. Federica Bianchi