LA STAMPA
Quei testimoni cli giustizia esposti alle vendette di mafia in un ufficio della Capitale
Assunti dalla Regione Sicilia nella sede di rappresentanza
Tutti sanno dove lavorano: “I colleghi hanno paura di noi”
A sentirla pensi a una barzelletta di Pierino. Come lasciare una cassaforte
con la combinazione a vista, come esporre su uno striscione un segreto, come
rinchiudere un gregge di agnelli in un recinto di lupi. Già. Perché quindici persone ad alto rischio, gente che ha cambiato identità e paese per sfuggire
alla mafia, sono state messe a lavorare nello stesso ufficio di Roma, con tanto di insegna, indirizzo e campanello. Quindici testimoni di giustizia,
vissuti finora sotto falso nome in paesini del Nord Italia per sfuggire alla vendetta di criminali che avevano contribuito a riconoscere e inchiodare a processo. Non collaboratori di giustizia, implicati e poi «pentiti», ma persone
innocenti. Vuoi ammazzarli?
Eccoli tutti insieme: nove al piano interrato, due in segreteria, quattro all`ammezzato. Basterebbe una sola bomba, una sola mitragliata per vendicare in un sol colpo decine di accuse, processi, ergastoli. «Bersagli segreti» si potrebbe scrivere sul campanello dell`ufficio di rappresentanza
della Regione siciliana a Roma, di cui nessuno per scaramanzia scrive l`indirizzo ma che basta trovare con un paio di clic su uno schermo, con tanto di mappa su Google. A due passi dalla stazione Termini, un palazzetto signorile, un giardinetto interno, un portone che fa pure fatica a chiudersi, nessuna protezione. E dentro nove uomini e sei donne, tutti testimoni di giustizia siciliani mandati «in località protetta», tutti assunti nell`ottobre scorso dal governatore Rosario Crocetta, un gesto nobile per riconoscere il valore della loro testimonianza contro la mafia e porgere una mano di aiuto a gente che nel giro di una notte ha dovuto lasciare casa, azienda, parenti, amici, vita. Peccato che la solerte burocrazia si sia accorta in ritardo che questi quindici fantasmi in Sicilia non potevano tornare, proprio per il loro status di esuli a vita. E allora che farne? Idea. Metterli tutti insieme
nell`unico ufficio che la Regione ha a disposizione in Italia fuori dall`Isola, a Roma. Dove, d`improvviso, i fantasmi si sono materializzati. Tra gli assunti ci sono Piera Aiello, la donna che ha puntato il dito contro i parenti mafiosi, cognata di quella Rita Atria che si uccise per disperazione alla morte del giudice Borsellino; e pure Giuseppe Carini, il testimone delle facce che giravano a Brancaccio ai tempi dell`omicidio di don Puglisi.
Peccato che la storia, che sembra grottesca, in realtà sia tragica. Perché cinque giorni fa uno di loro, un poveruomo che dieci anni fa denunciò i killer che avevano sparato nel suo ristorante, si è chiuso nel bagno dell`ufficio e ha inghiottito sei pasticche per farla finita. Chiamiamolo Giorgio, ma non è il suo nome. Hanno sfondato la porta, è stato salvato, ne avrà per un mese. Il culmine di disperazione di un drappello di fantasmi stretti in ufficio a fare nulla. «Non hanno alcuna mansione, non hanno postazione, non hanno computer. Passano il tempo a guardare film sul telefonino, le donne lavorano
a maglia», denuncia Ignazio Cutrò, il portavoce dell`associazione Testimoni di giustizia, imprenditore di Bivona che accusò i suoi estortori ma decise
di restare in Sicilia, e ancora adesso vive sotto scorta. «Giorgio – dice Cutrò – non ce l`ha fatta più. Lo hanno accusato di essere lento a fare le fotocopie. So che sembra incredibile, ma provi lei a stare per mesi e mesi a girarsi i pollici, tra la stanchezza di dover percorrere ogni giorno centinaia di chilometri per raggiungere Roma da casa, l`insofferenza dei vecchi dipendenti dell`ufficio che non ne possono più dei nuovi arrivati, la paura di essere diventati bersagli». Così quell`ufficio è diventato una polveriera. Nervosismo tra i testimoni e rapporti a dir poco tesi con la dirigente dell`ufficio, Maria Cristina Stimolo. Cutrò parla a viso aperto, per chiedere a gran voce che i suoi colleghi siano spostati negli enti pubblici decentrati dei loro paesi di residenza, le località segrete in cui si erano rifugiati.
Una soluzione ipotizzata ma non ancora trovata. E così ogni giorno i bersagli
vanno lì, «perché non hanno altra scelta – spiega Cutrò – perché non possono permettersi di perdere lo stipendio, 1270 euro al mese. È gente che, una
volta uscita dal programma di protezione, ha perso l`assegno di sostegno ed è precipitata nella povertà, costretta a mangiare alla mensa della Caritas,
a dormire negli ospizi, ad andare a raccogliere le patate. Gente che ha perso la sua prima vita, ma che adesso sta perdendo anche la seconda».