IL SOLE 24 ORE
Giustizia. «Condanna troppo mite», caos al Tribunale di Roma
Rivolta in aula contro il giudice, una crepa nella coesione sociale
Anzitutto i fatti. Ieri mattina, in un’aula del Tribunale penale di Roma, al termine di un processo per femminicidio il pubblico presente si è scagliato come una furia contro l’imputato e contro il giudice che lo aveva condannato a “soli” 20 anni di carcere, e non all’ergastolo come chiedeva il pubblico ministero. Per un’ora circa, nell’aula di udienza si è scatenato il caos: al grido di «infami», «vergogna», «fra pochi anni sarà libero», «fatecelo linciare», amici e parenti della vittima hanno bloccato l’aula, hanno insultato e minacciato il giudice, hanno tentato di aggredire l’imputato lanciandogli contro oggetti e urlando parolacce. Soltanto l’intervento di un massiccio numero di carabinieri, poliziotti e agenti della polizia penitenziaria ha impedito alla folla di farsi giustizia da sé contro Yoandro Medina Nunez, il cubano ventiquattrenne che nel novembre dell’anno scorso, nel rione Testaccio, sparò un colpo di pistola mortale alla testa di Nicole Lelli, la sua compagna italiana che viveva nella periferia della capitale.
La giustizia popolare, insomma, reclamava il massimo della pena, il carcere a vita. Tanto più che a chiederlo – nonostante la scelta del «rito abbreviato», che per legge comporta uno “sconto” della pena – era stato anche il Pm, contestando all’imputato l’omicidio volontario con una serie di aggravanti, tra cui la premeditazione. Quanto basta per giustificare l’ergastolo, sia pure con lo “sconto” dell’«isolamento diurno». Il giudice Claudio Carini non è stato d’accordo: ha escluso la premeditazione e ha bilanciato le aggravanti con le attenuanti generiche, per cui è partito dalla pena base di 30 anni prevista per l’omicidio volontario e poi ha applicato lo sconto di un terzo per effetto del «rito abbreviato». Risultato: «anni 20 di reclusione». Sentenza pronunciata, come di rito, «in nome del popolo italiano» ma rifiutata violentemente da quello stesso «popolo» che reclamava, invece, una pena esemplare per “vendicare” la vittima e i suoi parenti.
Fin qui la cronaca. Ma i fatti di ieri raccontano anche molto altro.
Raccontano di una giustizia delegittimata al punto tale che le aule giudiziarie sono diventate luoghi in cui si spara, come avvenne a Milano il 10 aprile del 2015 quando fu ucciso il giudice Fernando Ciampi, o si aggredisce, com’è accaduto nel luglio scorso a Palermo quando i familiari di due imputati condannati a pene pesantissime colpirono con un pugno in faccia il Pm e costrinsero la Corte a barricarsi in camera di consiglio. La violenta reazione di ieri è la conferma di una progressiva caduta, non tanto di fiducia nella funzione giurisdizionale, quanto di cultura istituzionale. Con conseguenze gravissime, perché per questa via si logora – fino appunto a delegittimarlo – uno degli strumenti fondamentali della coesione sociale e di una democrazia. Il diritto penale nasce per non lasciare la giustizia nelle mani delle vittime: appartiene alla civiltà di un popolo avere un giudice terzo che valuti i fatti con imparzialità e che decida. Decisioni non sempre infallibili e certamente criticabili, ma sempre nel rispetto dell’istituzione.
Il giudice non deve rincorrere il consenso popolare. Dev’essere indipendente. Ma la sua professionalità – funzionale all’indipendenza – deve condurre a decisioni che possano quanto meno “aspirare” all’accettazione sociale, anche per scongiurare il pericolo di una giustizia fai da te. Tanto più in casi di rito abbreviato, come quello di ieri, nei quali non è neanche possibile che il Pm impugni in appello la sentenza. Perciò, ad esempio, non può non destare qualche perplessità la decisione di non riconoscere la «premeditazione», visto che normalmente non si esce da casa con una pistola, o quella di aver bilanciato le aggravanti con le attenuanti generiche. Il libero convincimento del giudice è un principio sacrosanto e va rispettato, ma a volte anche il convincimento di un giudice può essere sbagliato o border line. Altrettanto sacrosanto, quindi, è il diritto di critica purché non sconfini nella violenza delegittimante.
Sia chiaro: venti anni di carcere non sono una bazzecola e la cosiddetta «certezza della pena» non ha a che fare con la quantità ma con la qualità della pena da espiare, perché il suo obiettivo non è la “vendetta” ma – come dice la Costituzione – il reinserimento sociale del condannato. Questo vale anche per reati odiosi come il femminicidio e, in generale, le violenze sulle donne. Contro i quali nessuna “pena esemplare” potrà mai essere efficace quanto un diverso modello culturale maschile. La risposta, in fondo, è più amore per le donne e meno passione per il diritto penale. Donatella Stasio