IL SOLE 24 ORE
Corte Ue. La decisione dei giudici comunitari apre la strada a un’applicazione anche all’invio dei beni in conto lavorazione
Niente Iva anche senza «partita»
La mancanza dell’identificativo del Paese di destinazione non pregiudica la non imponibilità
La mancata indicazione del numero identificativo Iva attribuito dallo Stato di destinazione non pregiudica la non imponibilità. Così ha concluso la Corte Ue, sentenza C-24/15 di ieri, intervenendo nuovamente sul tema della rilevanza formale o sostanziale del numero di partita Iva.
La vicenda
Il caso riguardava un imprenditore tedesco che aveva inviato in Spagna un veicolo acquistato in Germania per rivenderlo a un concessionario spagnolo. Questa operazione, dichiarata come cessione intracomunitaria, era stata contestata dall’amministrazione finanziaria che l’aveva ritenuta rilevante ai fini Iva in Germania. Tuttavia, dato che nel corso del procedimento era emerso che il veicolo all’atto della cessione si trovava già in Spagna, l’erario aveva annullato l’avviso rettificativo d’imposta e aveva modificato il calcolo dell’Iva ritenendo che l’operazione fosse da assoggettare ai fini Iva in Spagna. E ciò in quanto il contribuente non aveva indicato l’identificativo Iva attribuitogli in tale Paese. Investito della questione il giudice del rinvio si interrogava se, in assenza di seri indizi di frode, il fatto che il contribuente non avesse adottato tutte le misure che gli si potevano ragionevolmente richiedere per indicare il numero di partita Iva attribuitogli dallo Stato di destinazione potesse costituire valido motivo per negare la non imponibilità Iva.
La decisione
Per risolvere la questione, la Corte Ue ha innanzitutto premesso che le disposizioni unionali non contengono alcuna previsione sugli elementi di prova richiesti affinchè le cessioni intra-Ue possano beneficiare del regime di non imponibilità Iva. Agli Stati è tuttavia attribuita la facoltà di individuare i mezzi di prova che possono essere forniti dai soggetti passivi per beneficiare del regime. E questo trova applicazione anche nel caso di cessioni effettuate per le esigenze della propria impresa. Gli Stati hanno sì la facoltà di adottare le misure dirette ad assicurare l’esatta riscossione dell’Iva e a evitare le frodi, ma a condizione che non eccedano quanto è necessario per conseguire tale obiettivo. Tali misure non possono essere utilizzate in modo tale da pregiudicare la neutralità dell’Iva (sentenza 587/10). In altri termini, subordinare il diritto alla non imponibilità Iva di una cessione intra-Ue al rispetto di obblighi di forma, senza prendere in considerazione i requisiti sostanziali, e in particolare senza porsi la questione se questi ultimi siano stati soddisfatti, eccederebbe quanto necessario per assicurare l’esatta riscossione del tributo (sentenza C-146/05 del 2007).
Da quanto detto discende che, sebbene l’indicazione della partita Iva costituisca la prova che il trasferimento del bene è stato effettuato in un altro Stato Ue per esigenze dell’impresa, nonché agevoli il controllo delle operazioni intra-Ue, il principio di neutralità fiscale esige che la non imponibilità Iva venga concessa se i requisiti sostanziali sono rispettati e sia dimostrato che il contribuente non abbia intenzionalmente preso parte a una frode, anche se alcuni requisiti formali sono stati omessi.
Le conseguenze
La portata di questa pronuncia, in linea con la giurisprudenza comunitaria in materia, può essere estesa non solo a una “generica” cessione intra-Ue, ma anche a quella assimilata dell’invio di beni in conto lavorazione da uno Stato a un altro e non destinati al rientro nel Paese di origine. Proprio con riferimento a quest’ultima fattispecie, le modifiche alla normativa nazionale (articoli 38 e 40 del Dl 331/1993) della legge europea 2014 hanno reso necessaria la richiesta di attribuzione del numero di partita Iva nello Stato ove la merce viene inviata in conto lavorazione, laddove l’operatore nazionale, al termine della lavorazione, non intenda reintrodurla nel proprio Paese, ma la destini altrove.
Proprio in considerazione delle conclusioni della Corte, nel caso di invio della merce da parte di un operatore italiano in un altro Stato Ue, per la lavorazione, l’eventuale mancata indicazione della partita Iva attribuitagli da questo Stato, potrebbe non costituire motivo per la preclusione del regime di non imponibilità, ma solo a condizione che la merce sia ceduta al termine della lavorazione a un soggetto passivo ivi localizzato (fattura con partita Iva italiana).
Diversa è l’ipotesi in cui la merce sia destinata a un privato consumatore localizzato nello Stato in cui questa è stata oggetto di lavorazione, a un soggetto passivo residente in altro Paese Ue o all’esportazione. In tali ipotesi, l’operatore italiano deve necessariamente indicare in fattura il numero di partita Iva attribuito dallo Stato in cui la merce si trova all’atto della cessione. Roberta De Pirro