IL SOLE 24 ORE
Consiglio nazionale del Notariato. In una nota le «istruzioni» per i contenuti economici degli accordi
Convivenze con comunione di beni
Il contratto può modificare il regime di separazione che è quello legale
Se nel matrimonio e nelle unioni civili il regime patrimoniale legale è quello della comunione dei beni (salvo che, mediante una convenzione, non sia scelto il regime di separazione), nelle convivenze di fatto accade l’esatto contrario: il regime legale è quello di separazione dei beni, fatta eccezione per il caso in cui la convivenza sia registrata in anagrafe e i conviventi stipulino un contratto di convivenza nel cui ambito scelgano di adottare il regime di comunione dei beni. È preclusa invece ai conviventi la stipula del fondo patrimoniale (consentita invece ai coniugi e agli uniti civili) mentre pare ammissibile l’adozione di un regime di “comunione convenzionale” (vale a dire un regime di comunione modificato rispetto alla disciplina del regime di comunione legale dei beni recato dal Codice civile).
Sono queste alcune delle considerazioni che il Consiglio nazionale del Notariato svolge in una nota intitolata «La nuova legge sulle unioni civili e le convivenze. Profili generali degli istituti».
Nelle convivenze di fatto, i rapporti patrimoniali hanno una duplice disciplina: alcune regole “di base”, applicabili a qualsiasi convivenza di fatto e, per le convivenze registrate in anagrafe, nel cui ambito sia stipulato un contratto di convivenza, le norme recate appunto dal contratto di convivenza. Quanto alle regole “di base”, meritano di essere sottolineate, per rilevanza le seguenti:
il diritto del convivente superstite, in morte dell’altro convivente, di abitare la casa di comune convivenza per due anni (che diventano tre in caso di coabitazione di figli minori o di figli disabili del convivente superstite) o per un periodo pari alla durata della convivenza se superiore a 2 anni, e comunque fino ad un massimo di 5 anni;
il diritto del convivente superstite, in morte dell’altro convivente, di succedere nel contratto di locazione della casa di comune residenza;
il diritto del convivente che presti stabilmente la propria opera all’interno dell’impresa del partner, di partecipazione agli utili in commisurazione al lavoro prestato.
Quanto ai contratti di convivenza (che devono essere redatti in forma scritta con atto pubblico o con scrittura privata autenticata da un notaio o da un avvocato, fatta eccezione per gli atti che comportano trasferimento di diritti reali immobiliari, i quali sono di esclusiva competenza notarile), essi possono anzitutto contenere le modalità di contribuzione alle necessità della vita in comune, in relazione alle sostanze di ciascun convivente e alla rispettiva capacità di lavoro professionale e casalingo.
Inoltre, il contratto può contenere appunto l’opzione per l’instaurazione del regime di comunione dei beni, con l’effetto che gli acquisti compiuti da ciascun convivente durante il periodo di convivenza profittano anche all’altro convivente. Probabilmente, come già accennato, il contratto di convivenza può disporre anche qualche modifica rispetto al regime legale della comunione: ad esempio, disporre che siano soggetti a comunione anche gli acquisti anteriori alla convivenza oppure che i redditi dei conviventi siano soggetti a comunione immediata (e non alla cosiddetta comunione de residuo, e cioè a quella che si origina al momento della cessazione del regime di comunione “legale”).
Secondo la legge 76, il contratto di convivenza non può essere soggetto a termini e condizioni: ma si tratta di una espressione legislativa che pare doversi riferire al rapporto di convivenza come tale (come se Tizio e Caia convenissero di stare in convivenza per cinque anni) e non ai rapporti patrimoniali tra conviventi: insomma, pare lecito che il contratto di convivenza contenga accordi patrimoniali per il caso della cessazione dello stato di convivenza. Angelo Busani