IL SOLE 24 ORE
Le condizioni. Costituzione e recesso con atto pubblico o scrittura privata autenticata
Vietato apporre condizioni e scadenze ma il patto si può sempre cambiare
Per la validità di un contratto di convivenza, secondo la legge Cirinnà, occorre che i contraenti siano conviventi “registrati”, maggiorenni e non interdetti; inoltre, non devono essere né parenti o affini (di qualsiasi linea e grado) né legati da vincoli di adozione. Ancora, non devono essere uniti, con soggetti diversi dal rispettivo convivente, da un vincolo matrimoniale, né partecipi di un’unione civile o di altri contratti di convivenza in corso di vigenza. Il contratto di convivenza non può essere stipulato nemmeno se un contraente è stato condannato per omicidio consumato o tentato sul coniuge dell’altro (articolo 1, comma 57).
Il contratto di convivenza «non può essere sottoposto a termine o condizione» (articolo 1, comma 56), cioè non tollera di avere una scadenza (ad esempio: «restiamo in regime di comunione dei beni per quattro anni») né di essere subordinato a eventi futuri («Tizio si obbliga a versare un contributo economico doppio alla vita familiare se nascerà un figlio»). In questi casi, è però prescritto che la condizione e il termine non infettano il contratto: esso rimane valido, mentre condizione e termine vanno considerati come non esistenti.
Non potendosi stipulare pattuizioni subordinate a vincoli temporali o in considerazione di eventi futuri e incerti, la legge costringe dunque i conviventi a verificare periodicamente il contratto ed eventualmente a innovarlo per situazioni sopravvenute. Perciò prevede che, con accordo tra le parti, lo si possa in ogni tempo modificare (o addirittura risolvere radicalmente) col rispetto delle stesse forme e oneri pubblicitari prescritti per la sua stipula (articolo 1, comma 59).
Peraltro, se non si raggiunge un accordo modificativo o risolutorio tra i conviventi e il contratto preveda una regolamentazione che uno dei conviventi non condivida più, a costui la legge riserva la facoltà di recesso unilaterale (articolo 1, comma 61). Anche in questo caso occorre rivestire la dichiarazione di recesso con la forma dell’atto pubblico o della scrittura privata autenticata e pure occorre farne registrazione all’anagrafe del Comune nel quale si registrò la convivenza. Inoltre, la dichiarazione di recesso, essendo un atto unilaterale, va notificata all’altro contraente, affinchè anche questi ne abbia debita conoscenza.
Nel caso del recesso, la legge si preoccupa della particolare situazione che sorge se il recedente sia titolare della casa ove la convivenza si svolge e che sia abitata anche dall’altro convivente: secondo l’articolo 1, comma 61, la dichiarazione di recesso deve contenere, a pena di nullità, il termine, non inferiore a 90 giorni, concesso al convivente cui viene notificato il recesso dell’altro contraente, entro il quale l’abitazione deve essere lasciata.
Comunque, se la convivenza registrata cessa, qualora uno degli ex conviventi versi in stato di bisogno e non sia in grado di provvedere al proprio mantenimento, il giudice stabilisce il diritto di costui di ricevere dall’altro convivente gli alimenti, i quali devono essere assegnati per un periodo proporzionale alla durata della convivenza (articolo 1, comma 65). Questa situazione non dovrebbe poter essere oggetto di regolamentazione con il contratto di convivenza, in quanto, da un lato, il contratto di convivenza parrebbe deputato a regolare i rapporti patrimoniali durante la convivenza e non dopo la sua cessazione; e, dall’altro, perché l’intervento del giudice evoca la natura pubblicistica, e quindi indisponibile, di questa materia. Forse è ipotizzabile che il contratto di convivenza disponga una contribuzione al coniuge bisognoso in misura maggiore rispetto a quella meramente alimentare: ma siamo in uno stadio talmente arretrato di conoscenza e di esperienza su questa materia che è assolutamente affrettato trarre fin da ora conclusioni definitive su questo punto.